Corriere della Sera - La Lettura
La delusione dei dipendenti «Il sogno è stato tradito»
Silicon Valley
C’è stato un momento, non troppi anni fa, in cui aziende come Google e Facebook erano blindate: i giornali che provavano ad avvicinarsi ai dipendenti per avere informazioni — o leak, fughe di notizie — spesso fallivano. Per via delle politiche aziendali, certo, ma anche per un senso d’orgoglio che permeava questi giganti, che operano nel digitale ma con l’ambizione di «rendere il mondo un luogo migliore». Nel 2018, tutto è cambiato. Lo scandalo Cambridge Analytica ha rivelato il potenziale politico (e geopolitico) della raccolta dati di Facebook e il ruolo di Steve Bannon, ex stratega della Casa Bianca sotto Trump, in una campagna di disinformazione social che avrebbe influenzato l’esito del voto. Google ha dovuto fare i conti con lo scoop del sito «The Intercept», che ha reso nota l’esistenza del Progetto Dragonfly, con cui stava costruendo un motore di ricerca censurato per la Cina, mentre ha dovuto schivare l’accusa di aver protetto Andy Rubin, padre di Android, da svariate denunce per molestie sessuali. In tutto questo, rimane aperta la discussione sul ruolo di YouTube nella diffusione di fake news ed estremismi.
Ma è Facebook ad avere attraversato i 12 mesi peggiori. Poco prima di Natale «BuzzFeed» ha realizzato una «linea del tempo degli scandali» nel solo 2018: si comincia l’11 gennaio (con un cambiamento all’algoritmo che sconvolse l’esperienza di milioni di utenti e inserzionisti), arrivando al 19 dicembre (una causa contro l’azienda per il ruolo nel citato scandalo Cambridge Analytica). In mezzo, un polverone di denunce e scoop hanno abbattuto il morale di molti dipendenti, spingendo alcuni a parlarne con la stampa. «È la fine dell’omertà tecnologica», ha scritto il «New York Magazine» sottolineando la stranezza di proteste pubbliche in aziende simili, un tempo basate su fiducia e orgoglio dei lavoratori.
A suggellare l’annata negativa di Facebook ecco il tonfo di Sheryl Sandberg, direttrice operativa dell’azienda, imprenditrice, attivista, autrice di Lean In, bestseller sulle possibilità imprenditoriali delle donne, che sarebbe arrivata a chiedere informazioni alla società «sul conto di George Soros», il miliardario spauracchio dei populisti. Anche il volto più rasserenante dell’azienda, la persona che dava più calore umano a un’azienda rappresentata dall’algido Mark Zuckerberg, è stata colpita dal vortice che ha travolto questa parte della Silicon Valley.
Quello che è successo, ed è destinato a continuare, è la fine di un sogno. L’idea che un’azienda possa accumulare miliardi di utenti e montagne di dati di ogni tempo rimanendo «buona» — qualunque cosa voglia dire — si è rivelata ingenua, prima ancora che irrealizzabile. Il malcontento interno ha riverberato con quello esterno, mondiale in questo caso, creando l’atmosfera peggiore che la Valley abbia vissuto negli ultimi dieci anni: accusate di aver favorito la Brexit, aiutato Trump e stravolto quasi tutte le elezioni degli ultimi due anni, Google e soprattutto Facebook sono ora costrette a difendersi e a proteggere quella che gli esperti di comunicazione chiamano «narrazione». A traballare è l’idea d’esclusività che da sempre ha irradiato queste aziende. Smart, innovative, «simpatiche», con il loro il capitalismo avrebbero portato ricchezza senza scendere ai compromessi nocivi a cui spesso ci ha abituato. Un sogno che si è spezzato con la Brexit, costringendo il mondo a un brutto risveglio.