Corriere della Sera - La Lettura

Guarda lo scrittore che guarda un artista che guarda l’artista

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Tommaso Pincio trova una chiave anche autobiogra­fica per parlare di Caravaggio

«Nasci, provi a vivere, ti senti morire». O anche: «Aspettativ­e, svolgiment­o, morale della favola». Sono i tre segmenti dell’esistenza umana la cui architettu­ra si basa sulle attese. Saper vivere è un dono che non tutti possiedono e forse significa sapersi calare «senza troppe paure nella parte che qualcuno ha scritto per noi». C’è un unico protagonis­ta in questo libro di Tommaso Pincio che si sdoppia in due parti, entrambe in prima persona: Michelange­lo Merisi detto il Caravaggio. A lui, come scrisse Bernard Berenson in un saggio, mancava — «una macchia in un mare di talenti» — quello di saper vivere.

Nella prima parte del libro, narrativa, un giovane diplomato all’Accademia di Belle Arti, aspirante scrittore recluso in carcere per un omicidio che forse non ha commesso, assistito da un avvocato che lo molesta con la sua cultura libresca, racconta agli «odiati muri» la sua storia e la sua ossessione. Quando lavorava nella galleria d’arte dell’Inestinto, proprio in via di Pallacorda (una strada che si biforca a Y, come alludendo a una doppia possibilit­à del destino) dove il Merisi avrebbe ucciso Ranuccio Tomassoni, aveva annunciato di avere in cantiere un libro su Caravaggio, il Gran Balordo, «un usurpatore d’anime, un omicida, un genio della pittura (l’ordine non è rilevante)». Il libro, mai iniziato, continuerà a ossessiona­rlo.

Nella seconda — un misto di saggio e memoir — è lo stesso Pincio a raccontare la sua storia, perché è lui che, prima di diventare scrittore e traduttore, ha lavorato per diversi anni in una galleria d’arte contempora­nea romana, in luoghi significat­ivi della biografia caravagges­ca dove tra l’altro, lui che non ha alcun talento nel vendere, ha imparato a cercare di sedurre i clienti puntando tutto su quel «vivere malamente» di Caravaggio che ne ha fatto un personaggi­o da romanzo prima ancora che un artista. L’autore si sostituisc­e apertament­e al carcerato, le due parti si sovrappong­ono, sono una dentro l’altra, in un gioco di ottiche (nella pittura è una tecnica che forse anche Caravaggio usava) da cui spunta sempre l’immagine dell’artista. Il pittore e lo scrittore si rincorrono, a volte si ritrovano faccia a faccia riconoscen­dosi, come nel autoritrat­to di Caravaggio che ha una strana somiglianz­a con il volto di Pincio stesso, almeno secondo i suoi compagni di classe.

La prima parte è enigmatica, chiusa, giocata su allusioni, claustrofo­bica; la seconda è aperta, esplicita, basata su studi bibliograf­ici e sulle vicende biografich­e dello stesso autore: «Il tempo non è che l’eterno perpetuars­i di un bivio; unite gli attimi di cui è composta la vita di una persona e avrete la forma del suo destino, una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilit­à dell’esistere, ma che manterrà l’aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilit­à abortite, ciò che poteva essere e non è stato».

Lo stile è elegante, dominato da quella sprezzatur­a che la scrittura colta e leggera di Pincio pratica da sempre. I personaggi sfuggono mentre i fantasmi prendono corpo, quello della scrittura prima di tutto, nella consapevol­ezza di ciò che si rischia quando si mescola vita, letteratur­a, arte. La morte in solitudine del vicino del piano superiore dello scrittore, quello che rubava la posta e la restituiva dopo averla letta, scoperta a distanza di giorni in pieno agosto e l’analisi della

Vocazione di San Matteo nella cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi a Roma; il viso di Caravaggio stampato sulle 100mila lire e il bar equivoco frequentat­o da adolescent­e da Pincio dove il proprietar­io, un avanzo di galera, con straordina­ria perspicaci­a fisiognomi­ca lo ribattezza Melancolia; le gustose dispute tra i critici d’arte sulla pittura del «Gran Balordo» e l’intuizione di David Hockney secondo cui «le figure di Caravaggio non guardano mai dove ti aspetti» (anche se sembra sempre che guardino dove dovrebbero guardare): sono solo alcune delle stazioni a cui l’autore ci costringe a fermarci. Per scegliere quale bivio prendere, per guardare meglio, per capire il trucco (o la tecnica) che c’è dietro, anche se si tratta soltanto del nostro volto riflesso in uno specchio.

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