Corriere della Sera - La Lettura
Un pazzo pazzo West nello stile di Jim Jarmush
Rudolph Wurlitzer è lo sceneggiatore di «Pat Garrett & Billy the Kid» e «Il piccolo Buddha» In «Zebulon» reinventa una frontiera quasi psichedelica, rivelando affinità con un film metafisico come «Dead Man» Il protagonista Il trapper che dà il titolo al romanzo muore più di una volta nel corso di una storia che è delirante programmaticamente
Quello del western è un fantasma duro a scomparire: sia al cinema, dove lo si è dato per morto mille volte, ma è sempre arrivato un grande film — il Dead Man di Jim Jarmusch, il Grinta dei fratelli Coen, il Django di Quentin Tarantino — a dirci che il genere può essere ancora decostruito (e quindi ricostruito); sia in letteratura, dove, per quanto siano lontani i tempi dei romanzi popolari in paperback, la tradizione è viva e continua a produrre pilastri (si veda alle voci Cormac McCarthy e Larry McMurtry).
Accade, in entrambi i casi, in virtù di quella capacità che ha il western, in quanto genere sovrarappresentato, di essere campo nel quale si proietta qualunque idea che riguardi il confronto tra uomo e natura, tra uomo e uomo, uomo e società, tra uomo e senso della vita (o della morte). Ne è valida e più recente testimonianza questo Zebulon di Rudolph Wurlitzer, uscito per Playground a dieci anni dall’originale americano, pubblicato dall’attenta indie Two Dollar Radio con il titolo The Drop Edge of Yonder, espressione che significa «sul punto di morire». E il protagonista del romanzo, il trapper Zebulon Shook, sul punto di morire è quasi sempre, anzi in effetti muore più di una volta nel corso di quest’epica programmaticamente delirante, che comincia su monti selvaggi del Colorado per arrivare sì alla California della corsa all’oro, ma in nave, partendo dalla Florida e passando da Panama.
Fin dall’inizio della sua carriera, Rudolph Wurlitzer ha mostrato un interesse particolare per i viaggi senza meta: il suo romanzo d’esordio, lo sperimentale Nog, del 1969, raccontava del resto i vagabondaggi di un uomo che si portava dietro un polpo in una batisfera. A Nog, che fu elogiato finanche da Thomas Pynchon, seguirono altri romanzi di minor successo, tant’è che il nome di Wurlitzer finì per essere associato più alla sua attività di sceneggiatore per Hollywood che a quella di scrittore: suoi, tra gli altri, gli script di Strada a doppia corsia di Monte Hellman, di Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah e del Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci. Film molto eterogenei ma in cui sono ben visibili le ossessioni di Wurlitzer: il road movie, il western e la spiritualità orientale. Temi che a distanza di decenni ritrovano una sintesi proprio in Zebulon, dove non mancano spunti metafisici che si stagliano ancor di più per il contrasto con la personalità ruvida del trapper.
Quando a Zebulon, alla madre e al fratellastro Jack la Scure viene somministrato un decotto sciamanico, il protagonista si scopre «consapevole di quel che gli era noto da sempre e che sempre dimenticava: siamo fatti della stessa sostanza delle piante, degli animali e della pioggia, che si stende sulla valle come un grande lenzuolo, seguita dal sole, e poi dal boato di un lampo sconvolgente che all’improvviso si trasforma nel ruggito di un puma. Siamo parte del tutto, una goccia d’acqua nell’oceano, un fiore selvatico calpestato dal tacco dello stivale di un bandito, uno scheletro nel deserto, indurito dal sole»; più avanti, Zebulon viene svegliato da un improvviso temporale e: «Avvicinati, gli ululano il vento e la pioggia, mentre la nave combatte con le onde, per poi gemere negli abissi: Avvicinati al regno dove la vita e la morte sono la stessa cosa…».
A mantenere il protagonista in uno stato liminale ci pensa anche un buco nel petto, ferita rimediata a inizio romanzo e mai guarita, che pare un omaggio proprio a Dead Man: anche il protagonista del capolavoro di Jarmusch si aggira in un West allucinato mentre è già ferito a morte. Ma Wurlitzer è uomo dalle molte sorprese e andando a fondo nella sua biografia si scoprirà che il debito è, in realtà, inverso, benché Dead Man sia del 1995: il romanzo è stato infatti costruito a partire da una sceneggiatura scritta già a fine anni Settanta, e che aveva girato molto a Hollywood, attirando l’attenzione, tra gli altri, anche di Jarmusch.
Fu quindi Wurlitzer il primo a pensare il West come campo metafisico in quanto spazio della morte — degli uomini, delle civiltà indigene, degli animali, della propria stessa epopea — ma Zebulon, forse perché arrivato dopo altri quarant’anni di elaborazione, va anche oltre. Vi vivono, in effetti, tutti i passaggi effettuati dal genere. L’epica degli spazi aperti, la dimensione picaresca dello spaghetti western e l’ultraviolenza delle sue tarde declinazioni, l’elemento parodico (come non vedere Trinità e Bambino quando Zebulon e Jack la Scure vengono messi sotto tiro dalla vecchia madre?), la metafisica e anche l’intertestualità dei Tarantino e dei Coen: c’è tutto, in questa corsa folle attraverso un’America sempre in bilico tra apocalisse e slapstick, in cui la vita e la morte si confondono finché una voce ci sussurra all’orecchio, con piglio, quello sì, zen, che tutto, in fin dei conti, è soltanto una farsa.