Corriere della Sera - La Lettura
L’universo è nato dal vuoto. Ma noi?
Gian Piero Bona, tra l’altro traduttore italiano del «Profeta» di Gibran, propone versi completamente autonomi — per temi e stile — rispetto alle diverse voci della nostra lirica Tradizione tragica La situazione tipo delle sue poesie è quella dell’uomo solo in dialogo con sé stesso o con il dio sempre assente e sempre presente
Che una poesia tutta protesa a intercettare il cosiddetto spirito del tempo conviva, di fatto, con un’altra del tutto disinteressata alla dimensione, non necessariamente superficiale, del presente, non dovrebbe destare sorpresa. Eppure ogni volta che s’incontra un poeta completamente estraneo sia ai riferimenti concreti e determinati (tempi, luoghi, persone, accadimenti circostanziati) sia a uno dei tanti orientamenti espressivi comunemente praticati, ci si trova comunque un poco confusi.
È come se venissero meno i riferimenti per farsene un’idea precisa, per esprimere un giudizio di valore. L’estraneità d’interesse e di modi porterebbe subito a prendere le distanze. Ma è vero che questo primo istinto non può riconoscersi in qualche misura figlio di un pregiudizio, di una chiusura. Così forse è più giusto concedere alla poesia un po’ di credito, continuare a leggere e, insomma, vedere come va a finire.
Qualcosa di simile può accadere con il nuovo libro di Gian Piero Bona, La volontà del vento, uscito per «Lo specchio» di Mondadori, la stessa collana in cui più di sessant’anni fa, nel 1955, aveva pubblicato il suo libro d’esordio, I giorni delusi.
Pur nella sua condizione singolare e appartata, Bona si può considerare uno dei decani della nostra poesia. Ha compiuto infatti 92 anni lo scorso novembre (è nato nel 1926 a Carignano, nei pressi di Torino). In ogni caso, non ha mai smesso di scrivere e pubblicare le sue raccolte di versi. Va ricordato tuttavia anche per altri motivi, sempre legati alla scrittura. Nella seconda metà degli anni Sessanta è stato uno degli sceneggiatori delle serie televisive, entrambe di produzione Rai, Leonardo e l’Odissea (questa seconda ha a che vedere coi riferi- menti alla cultura e ai miti della Grecia antica che costellano la sua poesia). Ma poi, e qui entriamo direttamente nel campo dell’arte poetica, ha tradotto nel 1968 il libro di poesie (e, precisamente, di prose poetiche) forse più fortunato degli ultimi cinquant’anni, vale a dire Il
Profeta di Khalil Gibran, nonché, più tardi, l’intera opera poetica di Arthur Rimbaud per la prestigiosa collana della «Biblioteca della Pléiade» di EinaudiGallimard.
Che cosa rende, alla lettera, fuori dal tempo la poesia di Bona? Anzitutto il fatto che il tempo non ci sia. Il discorso poetico nasce infatti da un’interrogazione assoluta, da intendersi in senso etimologico appunto come sciolta, non vincolata da legami di tempo e di spazio. Niente a che vedere con la storia, dunque; come, d’altro canto, nessun contatto coi mezzi toni, i falsetti, l’andamento colloquiale o discorsivo a cui tanta poesia del secondo Novecento ci ha abituato. Semmai la disposizione è quella della tradizione, per altro antichissima, della ma- linconia metafisica, di cui si ritrovano qui la solitudine meditativa, la stanzacarcere del pensiero (anche ossessivo), l’ironia cosmica, il radicalismo, la gravità e la cupezza dei temi: l’essere e il nulla («il niente e il tutto»), verità e apparenza, bellezza e orrore, oltre ovviamente al contrasto tra vita e morte, che è poi la madre di tutte le altre opposizioni. «O tu melancolia,/ ninfa gentile, che ti appoggi/ alla mia scrivania gettando/ sulla pagina il manto della sera;/ riscalda la mia vuota stanza/ ove talora si posava di nascosto/ una lucciola sulla carta bianca», scrive in una poesia intitolata appunto Melancolia.
La situazione-tipo di queste poesie è dunque quella dell’uomo solo in dialogo ora con sé stesso, ora col dio sempre assente e sempre presente della tradizione tragica («Credo e non credo in un dio vero/ che ha disegnato l’universo intero»). Vengono in mente le interrogazioni che scandiscono Il Profeta di Gibran, ovviamente, anche se qui rimangono tutte infallibilmente senza risposta. Anzi, al di là di certe suggestioni dell’Antico Testamento, non poco sembra ricollegarsi allo gnosticismo e al pensiero ancipite, diciamo così, in odore d’eresia.
Si trova qui, ad esempio, un testo provocatoriamente intitolato Il cantico delle creature oscure. Si possono poi individuare alcuni tipi di discorso ricorrenti. Anzitutto l’agonismo testamentario e apocalittico, l’invettiva, lo scongiuro, il sarcasmo contro il mondo creato (o quella che potrebbe essere la sua illusione). Quindi i modi della piccola parabola o profezia, a cui sono legati i motivi del viandante e della via, della grande foresta, del canto poetico, della vita come mare e come navigazione.
Infine l’ironia cosmica, la leggerezza disincantata e arresa, che si fa preferire agli inarcamenti più ambiziosi del sublime e dell’ascensione verticale. Ecco allora: «Se l’universo è nato dal vuoto,/ che sarà mai il vuoto/ che non è vuoto?// Dunque ignoto/ sono io anche al mio noto,/ senza sapere mai niente/ sulla vita presente».