Corriere della Sera - La Lettura
Il canto di Caino
Lirica «Il primo omicidio» di Alessandro Scarlatti è un oratorio che nessuno aveva mai messo in scena. Lo fa Romeo Castellucci a Parigi: «L’assassino del fratello va assolto perché agisce per gelosia infantile»
Romeo Castellucci chiarisce subito: «Caino va ass o l to c o mpl e t a mente , quello che fa, lo fa per eccesso d’amore, per gelosia infantile, perché vuole Dio tutto per sé. È come un bambino rifiutato». Non solo regista, ma filosofo di scena, Castellucci è al lavoro su Il primo omicidio di Alessandro Scarlatti, oratorio eseguito a Venezia nel 1707, poi intitolato anche Cain, che il prossimo 22 gennaio si vedrà per la prima volta in forma scenica. Non in Italia ma all’Opéra Garnier di Parigi, con direzione di René Jacobs.
Castellucci, un lavoro che non nasce per il teatro: c’è un’opportunità in più?
«A patto di ricordarsi lo scopo originario dell’oratorio, che doveva provocare una meditazione metafisica negli spettatori, con storie raccontate in modo figurato. E proprio la figura è un concetto chiave del teatro barocco, su cui ho deciso di insistere, assumendone il linguaggio retorico, credendoci fino a trovargli una forma. Ne Il primo omicidio il gioco dei personaggi è in alternanza quasi geometrica: si presentano uno dopo l’altro, sempre con un recitativo e un’aria, entrando in scena come su piedistalli, come gruppi di statue. Con i cantanti abbiamo lavorato molto sull’iconografia, a partire dalla pittura e dalla scultura».
Qualche esempio?
«Masaccio, van Eyck e certa pittura rinascimentale ma anche Rothko. In scena si vedrà L’Annunciazione di Simone Martini, una riproduzione perfetta della pala che scenderà dall’alto, capovolta come una lama di ghigliottina, nel momento in cui Eva ricorda il suo incontro con il serpente, che è un’annunciazione rovesciata».
Il libretto del cardinale Antonio Ottoboni, tratto dal quarto capitolo della «Genesi», arricchisce la psicologia dei personaggi?
«Ottoboni ha cercato di ricucire le parti mancanti, perché il materiale biblico è condensato in una sintesi estrema. Ma è soprattutto la musica di Scarlatti che dà ai personaggi uno spessore psicologico».
La voce di Dio, oltre a quella di Lucifero, interloquisce con loro.
«Sì, ma come pure funzioni: sono due deus ex machina che intervengono dall’esterno, come forze esogene. In teoria dovrebbero essere voci provenienti da chissà dove per rappresentare l’aldilà, ma con René Jacobs abbiamo scelto di averli sul palcoscenico».
Quanto pesa la loro presenza sul fratricidio?
«Caino viene spinto all’errore perché fa parte di un disegno più grande. È come Oreste, come tutti gli eroi tragici. Per questo la zona oscura del racconto sta nella scelta arbitraria di Dio. Quanto a Caino, è un nostro fratello, qualcuno verso cui provare un affetto profondo. È Dio che decide di essere nutrito di sangue, rivelando tratti persino primitivi: la cultura paleolitica di Dio contrapposta a
quella neolitica di Caino».
Un Dio contro il progresso?
«In un certo senso è così, tanto che questa storia è stata interpretata anche come scontro tra due culture: da una parte Abele e gli allevatori, dall’altra Caino e gli agricoltori. Naturalmente quelli più avanti sono gli agricoltori».
Eppure nelle Scritture, come nel libretto, Caino sembra colpevole.
«È solo una scusa dottrinale. Si dice spesso che Caino abbia inventato la morte, ma è falso: ha scoperto la morte, perché nessuno prima di lui l’aveva conosciuta. Caino non sapeva che cosa stava facendo».
Dopo l’omicidio sarà condannato a errare per la terra.
«Ed è un errare gravido di futuro. Si potrebbe sostenere che sia proprio lui il vero prescelto, visto che fonderà la civiltà, la cultura e, secondo certe tradizioni, persino la musica. Ma prima di lasciarlo andare Dio lo ammonisce con un avvertimento tremendo: “La vita tua pena sarà”, scrive Ottoboni. Da questo momento Caino sarà condannato a una vita tra virgolette, per la prima volta scoprirà una distanza con l’esistenza, quella mancata corrispondenza con la vita in senso profondo che tutti proviamo prima o poi».
Si vedrà l’omicidio in scena?
«Sì, ma non come gesto violento. Deve essere un momento di svolta: dopo l’omicidio la dimensione antropologica del lavoro compie una virata. E questo cambiamento deve vedersi anche sulla scena».
Da una parte la violenza, dall’altra il sacro. Due elementi inseparabili?
«Non a caso La violenza e il sacro è un titolo di René Girard, che si è occupato a lungo anche di Caino: non c’è sacro senza violenza e viceversa. Di quest’oratorio si deve sentire tutta la potenza. La cultura barocca ha questo di straordinario: vuole qualcosa da noi, ma non si tratta per forza di ragionamento. Prima di tutto deve colpire le nostre emozioni più profonde e istintive, facendoci ritornare a una dimensione ancestrale, da semplici mammiferi».
Sembra riferirsi a una dimensione fuori dal tempo.
«Per questo è un repertorio in cui mi sento libero, tanto quanto nel repertorio contemporaneo. È quello che c’è in mezzo che mi mette più in imbarazzo: ad esempio il melodramma italiano».
Con Wagner però non le accade.
«Nelle opere di Wagner si ritrova l a p ote n z a d e l l a mi to l o g i a , p e r quanto reinventata. Invece le storie del melodramma italiano sono come romanzi: sono più particolari e curiose, per non dire aneddotiche. Quello che mi interessa è un lavoro su personaggi capaci di diventare come specchi ustori, per metterci a nudo».
Come con il teatro antico?
«La tragedia classica è una stella polare fuori dal tempo, perché coglie e cristallizza un senso del tragico che preesiste alla tragedia. E per senso del tragico intendo ogni frattura, ogni divisione dell’esistenza, che può avvenire tanto nel mondo cellulare quanto tra gli individui, tra i popoli, tra le nazioni».
In Italia si fa ancora molta confusione tra drammaturgia e regia. Qual è la sua idea?
«Per quanto mi riguarda la drammaturgia è un lavoro di preparazione, perché all’opera occorre armarsi: è un mondo ostile. Questo studio permette di sbarazzarsi degli stereotipi, di tutti i “si fa così”, per ritrovare ogni volta un oggetto nuovo da offrire al pubblico. Poi con la regia si deve osare nella coerenza della forma, anzi nella coerenza del limite. Perché l’opera non è una pagina bianca: ci sono parole che sono state decise, un flusso emotivo che è stato deciso e un’architettura temporale che è stata decisa».
C’è qualche speranza di vedere un suo spettacolo alla Scala?
«Ho l’impressione che in questo momento non sia il luogo per me. Mi pare che la messinscena sia vissuta quasi in senso negativo: non deve disturbare».