Corriere della Sera - La Lettura
Cima Coppi 230 libri sul Campionissimo
«Uscito dalla cronaca, ormai senza aggettivi, Fausto Coppi è, nella giustizia degli esempi umani, un fattore incredibile che dopo tante prove di ragione ha bisogno di fede. È stato con noi, nel nostro tempo, gli abbiamo creduto. Ora la leggenda incomincia a nascere dal dubbio che egli sia esistito, che egli sia morto. Il rimpianto è l’inno». Con l’orecchio assoluto del poeta, Alfonso Gatto aveva sentito nascere l’epos del Campionissimo e ne aveva profetizzato la musica immortale, nata dalla nostalgia inestinguibile per l’eterna gioventù del mito di Fausto, atleta immaginifico sulla sella e moderno anche nei tormenti famigliari. Forse nemmeno un uomo di lettere, appassionato di ciclismo come Gatto, avrebbe però immaginato tutto questo, perché le ali del mitico Airone cantato da Orio Vergani si sono chiuse il 2 gennaio 1960, ma si sono presto riaperte nell’immaginario collettivo, fatte di un materiale diverso, incredibilmente resistente: la carta.
E così, dopo un percorso di 230 tappe, la montagna di libri e di pubblicazioni sul garzone di Castellania che assieme a Bartali con le sue imprese ha trascinato l’Italia del Dopoguerra, sembra aver raggiunto la Cima Coppi proprio in vista del centenario della nascita, che si celebra nel 2019. Le vette mitiche sono evidentemente altre, a partire da Caro Coppi dello stesso Vergani, passando per il corpus di opere di Mario Fossati per finire con Gianni Brera. Ma la cima più alta è scenografica, panoramica, anche didascalica, come è giusto che sia per far conoscere il più grande ciclista di tutti i tempi anche a chi ne ha solo sentito parlare: Coppi per sempre è un viaggio lungo 530 pagine, costellate di fotografie, ritagli di giornali, alcune vere chicche, molte delle quali inedite in Italia, che ripercorrono tutta la vita, la morte, i miracoli sportivi e gli «scandali» privati dell’atleta e dell’uomo. Tra i ritrovamenti fotografici spiccano quelli della vittoria al Giro del 1940 sull’Abetone, dove il giovane Fausto si rivelò, l’arrivo della mitica Cuneo-Pinerolo del 1949 e di una kermesse sulla pista coperta di Buenos Aires nel 1958. Riuscire ad armonizzare tutto il materiale, sia dal punto di vista grafico che filologico, non era facile, ma Auro Bulbarelli e Giampiero Petrucci sono andati al di là dell’archeologia del Campionissimo, dando vita un’opera che dà il senso del lungo cammino.
Anche attraverso le opere dei grandi che lo hanno raccontato: «Fausto è un uomo moderno — scriveva Curzio Malaparte —. È già un uomo moderno. Il grande segreto di Coppi che lo rende un campione più vicino alle folle di qualsiasi altro campione internazionale è la qualità tutta moderna del suo fisico e del suo morale. Tra Bartali e Coppi esiste la medesima differenza che c’era tra una Fiat e una Bugatti, la stessa che corre oggi tra un aereo a elica e un aereo a reazione».
Il suo volo è stato individuale certo, ma soprattutto collettivo, perché Coppi è stato un fenomeno sportivo, ma anche sociale e di costume, negli anni in cui il ciclismo era il primo sport d’Italia: la guerra che inizia poco dopo la sua prima grande vittoria, la prigionia negli Stati Uniti, il ritorno in Italia, i trionfi al Giro, al Tour, al Mondiale, i duelli con Bartali, la morte del fratello Serse, la storia da uomo sposato con la Dama Bianca. Sulla Cima Coppi dei libri, non si ammira solo il panorama dei successi in solitaria, delle sconfitte laceranti, degli amori e dei dolori di Fausto, ma si raccoglie anche il coro, pubblicistico e letterario, che ha accompagnato quei vent’anni belli e dannati che trascorrono dalla prima vittoria al Giro fino all’assurda morte all’alba degli anni Sessanta, per una malaria non curata come tale. «Il grande
airone ha chiuso le ali. Quante volte Fausto Coppi evocò in noi l’immagine di un grande airone lanciato in volo con il battere delle lunghe ali a sfiorare valli e monti, spiagge e nevai?». Forse queste righe di Orio Vergani sono rimaste le più celebri, per la loro bellezza e per la loro capacità nel momento della morte di dare una dimensione quasi ultraterrena a quell’omino curvo in bicicletta che scalava da solo la Casse Deserte dell’Izoard e sembrava pedalare sulla luna.
Fatalmente la morte è il punto di partenza e di arrivo della narrazione del mito di Fausto, anche se nella scansione cronologica di Coppi per sempre non è così, ed è giusto e bello che la maggior parte del racconto sia dedicato a tutto quello che c’è stato prima. Anche se la leggenda scaturisce proprio da quell’addio tragico. Un finale talmente banale da essere incredibile e da suscitare pensieri e riflessioni di ogni genere. Come questo di Gianni Brera, forse non così noto al grande pubblico: «Quando Fausto ha capito che sopravvivere a sé stesso non era impossibile, ma certamente sconveniente per uno come lui, con infinita tristezza, ha deciso di abdicare e di lasciarci. Il destino beffardo gli ha consentito di evitare il suicidio offrendogli una scappatoia impensata. E i medici, che del destino sono umili strumenti, si sono diligentemente prestati all’esecuzione. Del resto gli eroi autentici vanno per tempo rapiti in cielo, non possono vivere tra noi, al nostro mediocre livello».
Se tutto questo è stato (ed è) il punto di partenza dell’eterno ritorno coppiano, come in un Giro infinito, hanno ragione gli autori di Coppi per sempre a sottolineare che «mai esisterà una pubblicazione definitiva su di lui» e che «mai si potrà mettere la parola fine alla descrizione della sua figura». Perché Fausto «è un patrimonio dello spirito». Ed è il più grande classico dello sport, probabilmente non solo di quello italiano, considerata la smisurata ammirazione degli autori francesi e inglesi per la sua figura. Un campione — parafrasando Italo Calvino — che non ha mai finito di dire quello che ha da dire.