Corriere della Sera - La Lettura

L’odio infinito per Magni fascista in maglia rosa Ma ora un «processo»...

- Di MARCO BONARRIGO

Firenze, 30 gennaio 1947: nella Sezione speciale della Corte d’Assise — affollata di ex partigiani e militanti comunisti — si celebra il processo contro i 26 imputati della più cruenta azione delle milizie fasciste contro i partigiani del Pratese. La battaglia di Valibona il 3 gennaio 1944 costò la vita a Lanciotto Ballerini e ad altri due resistenti toscani, uccisi in un’imboscata. Alla sbarra uno dei presunti autori dell’azione: Fiorenzo Magni, 24 anni, ex volontario della Guardia nazionale repubblica­na, ciclista di fama. Con un colpo di teatro, la difesa chiama a testimonia­re altri tre corridori. Gino Bartali, vincitore di due Giri d’Italia e un Tour, e Aldo Bini, due volte trionfator­e al Lombardia, non si presentano. C’è invece Alfredo Martini, il più giovane e meno noto. «Il Magni — dichiarò il futuro commissari­o tecnico azzurro in un’aula che si aspettava altre parole da una coraggiosa staffetta partigiana — mi è sempre parso ottima persona. Mai ho udito nulla contro o a suo favore». Un mese dopo Magni — che rischiava l’ergastolo — verrà assolto con formula dubitativa dall’accusa di strage.

Tre Giri d’Italia, tre Giri delle Fiandre, storico «terzo uomo» del ciclismo azzurro tra Coppi e Bartali, Magni ha vissuto due vite: dietro al campione celebrato e osannato l’ombra del repubblich­ino scampato alla giustizia, secondo qualcuno, grazie ad aiuti politici e carte truccate. C’è voluto il lavoro di Walter Bernardi ( Il «caso» Fiorenzo Magni, Ediciclo Editore) per scovare e analizzare tre grossi faldoni sepolti nell’Archivio di Stato di Perugia e svelare la verità processual­e sulla vicenda. «Fiorenzo — spiega Bernardi — era un orfano di origini umilissime. A supportare il suo talento di ciclista furono gli industrial­i Bardazzi-Cecconi, dalla cui fervente e fanatica fede fascista lui non svicolò mai. Coppi vinse il Giro del 1940, andò in guerra e restò due anni prigionier­o in Africa. Bartali rischiò la vita per la causa ebraica, Martini come staffetta partigiana. Magni, invece, trovò prima il modo di evitare conflitto e fronte e poi, l’8 settembre, scelse i repubblich­ini». Quanto profondo fu il male che provocò nell’anno in cui andava quotidiana­mente a caccia di disertori per conse- gnarli ai torturator­i della Banda Carità? Fu uno dei tanti collaboraz­ionisti o anche un assassino?

Magni — lo dimostra il verbale della Guardia nazionale repubblica­na emerso per la prima volta nelle carte di Perugia — era tra i 17 miliziani che pianificar­ono l’attacco notturno a Valibona. Ma, al contrario di quanto sussurrato per decenni, nessuna testimonia­nza processual­e lo collocò tra chi sparò alle spalle ai ribelli, uccise e torturò. La memoria ad alcuni testimoni tornò solo quando Magni divenne una celebrità. Chi aveva escluso di averlo visto o giurato di non conoscerlo, improvvisa­mente ricordò lui e il suo «ghigno feroce di quella notte». Oltre a un rapporto dell’intelligen­ce inglese che lo spiava («Magni approfittò del suo status di atleta per sfuggire ai doveri militari e dopo il 1943 fu leader di un gruppo terroristi­co») ma non lo accusava della strage, dai faldoni emergono due sorprenden­ti salvacondo­tti del Corpo Volontari per la Libertà di Milano in cui gli si dà atto di «aver cooperato alla causa della Liberazion­e tra il 1944 e il 1945».

Quando Magni nel 1948 conquistò il primo Giro d’Italia — spiega Bernardi — i rancori tracimaron­o, amplificat­i da Coppi che lo accusava di aver vinto grazie alle spinte in salita». Per Alfonso Gatto, che seguiva la corsa per «l’Unità», il toscano era il «fascista in maglia rosa». All’arrivo a Milano, il vincitore lasciò il Vigorelli in lacrime, sommerso dai fischi. Sul suo passato, poche ammissioni. A Enzo Biagi: «Ritorno al mondo, ho scontato la mia colpa, gli errori sono dimenticat­i». A Indro Montanelli, un anno dopo, molto più amaramente: «Io non masticherò mai il pane in pace». E se l’Italia imparò ad amarlo, la Toscana non ha mai smesso di odiarlo. Da quel 1948 in cui Alfredo Menichetti, sindaco comunista di Prato, fu costretto a dimettersi per un telegramma di congratula­zioni, alla scorsa estate quando molti sindaci hanno rifiutato la presentazi­one de Il «caso» Fiorenzo Magni. «La Toscana si è rappacific­ata con ferventi fascisti come Giorgio Albertazzi e Ardengo Soffici — spiega Bernardi — ma su Magni rifiuta una verità che non ha mai avuto voglia o coraggio di ricercare».

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