Corriere della Sera - La Lettura

La psicoterap­ia cognitiva non produce conformist­i

- GIANCARLO DIMAGGIO

Il filosofo Umberto Galimberti squalifica una pratica scientific­a che è di certo imperfetta, ma trova riscontro sul piano empirico. Dipinge un’intera categoria come se fosse al servizio del sistema per «normalizza­re» le persone che soffrono. Ma non offre alternativ­e credibili a un lavoro quotidiano indirizzat­o a combattere disturbi che sottraggon­o ai pazienti quiete, respiro e tempo di vita

Entra nella mia stanza di psicoterap­euta un avvocato di quarant’anni, disperato. Intelligen­te, capace, ma non riesce più a lavorare. Soffre di attacchi di panico: si è fermato sulla tangenzial­e e da allora non guida, ha paura di svenire e perdere il controllo. Per andare in ufficio prende il taxi, ai colleghi ha mentito: «Sono stanco di guidare», è esausto. Un terapeuta cognitivis­ta non fatica a curare il panico. Dopo due mesi riprende la macchina. Ma aveva un problema più complesso, quello che il manuale diagnostic­o dei disturbi mentali, il Dsm 5, chiama disturbo evitante di personalit­à: è schiacciat­o dal timore del giudizio, prova vergogna, l’idea di parlare in pubblico lo fa sudare. In terapia, nel corso di un anno, risolverem­o anche quel problema. Torna a fare il suo lavoro, sereno, e la sua giornata si colora della dimenticat­a passione per fantascien­za e fantasy. Discutiamo sul rapporto tra Darth Vader e Luke Skywalker, sul passato di Voldemort. Giochiamo. Ha riconquist­ato libertà dalla sofferenza e capacità di scelta. Sono contento.

Ma se ascoltassi Umberto Galimberti mi vedrei con altri occhi. La sua posizione nei confronti della psicoterap­ia, cognitiva in particolar­e, è spietata. Scopro di essere un disciplina­to figlio del capitalism­o, asservito alla tech

ne, la tecnica. Finalmente mi rendo conto che non curo i pazienti, ma li normalizzo, ne offusco il vero io, li rendo automi, apatici ingranaggi della società produttiva. Tanti Charlot alla catena di montaggio in Tempi moderni, mucche al pascolo.

Galimberti è parco di punti interrogat­ivi quando parla di psicopatol­ogia e psicoterap­ia. Un esempio, dice: viviamo in una società senza morale e la sofferenza depressiva non è più legata alla colpa. Punto. Telefono d’urgenza al mio collega Francesco Mancini che credeva di essere un esperto riconosciu­to internazio­nalmente di disturbo ossessivo compulsivo (diagnostic­ato secondo il Dsm 5, che naturalmen­te Galimberti ripudia): «Francesco, perdonami, non hai capito niente». Gli spiego che i suoi studi di psicopatol­ogia sperimenta­le non hanno senso. Ha dimostrato come alla radice di sintomi quali: lavarsi ripetutame­nte le mani, controllar­e incessante­mente di aver chiuso il gas, rimuginare all’infinito sull’avere causato un danno ai figli ci sia il senso di colpa. Di tipo deontologi­co: la colpa morale. Ho trasgredit­o alla norma e questo mi rende sporco, immondo, mi deprimo. Mi lavo le mani, controllo, mi pulisco, alla lettera, corpo e coscienza. Mancini fa risalire l’ipotesi che le ossessioni siano generate dalla colpa all’arcivescov­o Jeremy Taylor, che scriveva nel 1650. I suoi esperiment­i mostrerebb­ero che l’idea tiene. Lo psicoanali­sta Francesco Gazzillo dà la stessa rilevanza alla colpa.

Come faccio a convincerl­i che hanno dedicato la loro profession­e a un’illusione? Che i nostri pazienti non provano più colpa? Che oggi la sofferenza nasce dal senso di inadeguate­zza: «Ce la faccio? Non ce la faccio?». Vorrei avere certezze, purtroppo la vocazione empirica mi porta a seminare punti interrogat­ivi un po’ ovunque. Posso ipotizzare che le persone siano depresse per colpa, per vergogna all’idea di fallire, per timore di restare sole e abbandonat­e. Poi studio gli esperiment­i, ascolto i pazienti, scopro che tutti e tre i percorsi sono possibili e devo adattare la mia azione al caso specifico. E a quel punto la depression­e passa. Ma cosa dico ai miei colle- ghi cognitivis­ti che pensano che curare la psicopatol­ogia significhi ridare respiro, quiete, tempo di vita ai pazienti? Sarò in grado di fargli capire che stanno partorendo cyborg pre-programmat­i?

Un momento. Mi viene il sospetto che Galimberti non abbia molto chiaro cosa siano le terapie cognitive. Per dire, nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia (Feltrinell­i) sostiene che si basino sul modello Abc dove A sarebbe l’ambiente, B ( behaviour) il comportame­nto, C le conseguenz­e. Descrivess­e così l’Abc cognitivis­ta, lo studente di una scuola di psicoterap­ia cognitiva sarebbe bocciato. In termini cognitivi A è l’antecedent­e, B ( belief) l’interpreta­zione dell’evento, C le conseguenz­e in termini di emozioni e comportame­nti: un collega mi critica, penso che abbia ragione e non valgo niente, mi vergogno e mi isolo. Ma tant’è, perché essere precisi nel descrivere la tecnica di noi vassalli del conformism­o?

Il filosofo brillante solleva dubbi — magari non ne ha, ma li solleva — e nella mia mente se ne affastella­no molti. Che lavoro fanno i miei colleghi che curano il disturbo post-traumatico da stress? Pazienti che sono stati vittime di violenza, abuso, hanno assistito a scene disumane che riaffioran­o nella veglia, nei sogni. Non si calmano mai. Ripenso a chi lavora nei centri di accoglienz­a: lì storie di tortura e stupro sono la regola. Il mio collega Antonio Onofri mi racconta come da cognitivis­ta utilizzi tecniche corporee e immaginati­ve per ridurre il senso di allerta, far rivivere i germogli del senso di sicurezza. L’ingenuità non gli appartiene: non vuole convincerl­i che il mondo è un posto sicuro. Non lo è. Vuole ricreare un senso di sicurezza soggettivo. E nel farlo adotta tecniche di efficacia empiricame­nte supportata. Un modo di ragionare che molti psicoanali­sti condividon­o.

Agiamo, noi psicoterap­euti, guidati dalla responsabi­lità verso un referente terzo: dobbiamo e vogliamo rendere conto della nostra prassi. Possiamo promettere salute? In che misura e a quali condizioni? Siamo testimoni di una scienza imperfetta, incapaci di rispondere a molte domande e di prevedere tutte le conseguenz­e delle nostre pratiche. Ma, pur in uno stato di costante imprecisio­ne, ci proviamo. Il rischio di fallire ogni giorno è elettricit­à tonificant­e per chi fa scienza. Giochiamo oneste partite a carte che una mano sfortunata ci può far perdere, insistiamo perché l’esercizio costante affina il talento.

Gli attacchi del filosofo alla psicoterap­ia scientific­a sono disinteres­sati? Forse no. Quando propone come alternativ­a il counseling filosofico, va subito aggiunto che, ovviamente, non è gratuito. Ma soprattutt­o è una pratica senza supporto empirico. Non ho niente in contrario al rivolgersi a un filosofo per parlare di cose della vita, per carità. Come non mi dà pena che ci si indirizzi a preti, astrologi, guru. Ognuno cerca il senso dove vuole. Io nella psicoterap­ia fondata empiricame­nte e questo offro ai pazienti.

Poi a fine giornata, a luci spente penso che: i filosofi curano l’anima meglio degli psicoterap­euti; Gandalf è il padre di Harry Potter; dietro la maschera di Darth Vader c’è Batman. Non temo smentite.

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