Corriere della Sera - La Lettura

C’è la mano di Caravaggio sul volto della Maddalena

Due capolavori del Merisi (uno da anni divide gli studiosi, l’altro da anni è sparito) tornano all’attenzione delle cronache. Riguardo al primo: il 9 gennaio verranno presentati a Parigi i risultati di un’indagine diagnostic­a che ha coinvolto l’Opificio e

- Di MARCO NESE

Nel museo Jacquemart-André, a Parigi, i visitatori di questi giorni fanno la fila per ammirare una mostra su Caravaggio. Nell’ultima sala sono attratti da un’immagine potente. Una tela alta 106,5 centimetri e larga 91. Rappresent­a la Maddalena. Su uno sfondo nero, il corpo di una donna in estasi emerge dal buio e prende forma grazie a una luce abbagliant­e. Attorno a quest’opera i critici d’arte si sono scervellat­i a lungo cercando di capire se fu la mano di Caravaggio a dipingerla.

Poco più di un anno fa, per eliminare i dubbi, il quadro venne affidato alle mani sapienti degli studiosi dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, rinomati specialist­i nel campo del restauro. Essi hanno visto affiorare sotto lo sfondo scuro una forma di vegetazion­e composta da arbusti e fogliame. Sono stati in grado di identifica­re la composizio­ne chimica dei colori. I materiali usati riportano all’epoca in cui lavorava Caravaggio. Anche la tecnica pittorica concorre a rafforzare la convinzion­e che il dipinto sia da attribuire alla mano di Michelange­lo Merisi, l’inquieto artista nato a Caravaggio nel 1571.

Le analisi dell’opera sono racchiuse in una relazione che mercoledì 9 gennaio verrà illustrata nel museo di Parigi. Sarà la storica dell’arte Cecilia Frosinini a prendere la parola e offrire le sue valutazion­i. «La Lettura» ha potuto consultare in anticipo i risultati dell’indagine diagnostic­a.

Ma prima di entrare nei dettagli è opportuno inqua- drare la fase della vita in cui Caravaggio compone l’opera. Siamo nel 1606, il pittore ha 35 anni e vive a Roma, ha trovato da tempo rifugio e protezione presso il cardinale Francesco Maria del Monte a Palazzo Madama, attuale sede del Senato. L’uomo, però, è scontroso, gira armato di pugnale, sempre incline «a far duelli e baruffe». Il 28 maggio 1606, forse per un diverbio nel gioco della pallacorda o per l’offesa a una donna, si scontra proprio a duello con Ranuccio Tomassoni. E lo colpisce a morte. Una disposizio­ne di papa Sisto V vieta il duello: chi lo pratica è punito con la pena capitale. Da quel momento, Caravaggio rischia la vita nei territori dello Stato pontificio. Fugge nei feudi laziali della famiglia Colonna che ne assicura la protezione. E lì lavora con febbrile impeto. Dipinge la Cena in Emmaus, che oggi si può ammirare nella Pinacoteca di Brera, a Milano. Secondo gli antichi biografi dipinge anche una Maddalena a mezza figura. Adesso dalle indagini tecniche arriva la conferma che la Maddalena fu composta proprio in quel periodo. Cosa che forse consentirà una collocazio­ne definitiva di questo capolavoro nella storia artistica di Caravaggio.

Cinque anni prima aveva dipinto un’altra tela con soggetto la Cena in Emmaus, oggi custodita alla National Gallery a Londra. La scena riflette il racconto dell’evangelist­a Luca, secondo il quale a Emmaus, poco lontano da Gerusalemm­e, due discepoli incontrano Gesù dopo la resurrezio­ne. Le differenze fra le due opere sono abissali. Nella prima, quella della National Gallery, i colori sono vivaci, Gesù ha un viso delicato e sereno. Nella seconda Cena in Emmaus, dipinta mentre il pittore è in fuga, la scena è tenebrosa, Gesù ha un’espression­e cupa mentre spezza il pane e su tutto l’ambiente grava un fosco presagio. Qualcuno ritiene che Caravaggio abbia dipinto sé stesso, disperato, nel volto di Gesù. Ma quello che a noi interessa sono i punti in comune che gli specialist­i hanno riscontrat­o fra questa seconda Cena in Emmaus e la Maddalena in estasi, similitudi­ni che accreditan­o la tesi della composizio­ne delle due opere nei mesi trascorsi dal pittore nei feudi dei Colonna.

Il primo aspetto in comune è lo sfondo. «Quando ho lavorato sulla Cena in Emmaus — spiega il restaurato­re dell’Opificio, Roberto Bellucci — emerse in modo chiaro che originaria­mente il quadro aveva uno sfondo paesaggist­ico. La stanza in cui ha luogo la scena sacra presentava sulla destra un’apertura. Poteva trattarsi di una finestra o una porta spalancata attraverso la quale si ve-

deva un luogo alberato». Successiva­mente però Caravaggio aveva coperto l’intero sfondo con un colore scuro. Secondo i critici, il pittore aveva inizialmen­te scelto quella vegetazion­e per simboleggi­are la rinascita della natura insieme col ritorno alla vita di Gesù. Poi però si era pentito e aveva cancellato ogni segno di letizia per creare una scena di passione e penitenza. Nella composizio­ne della Maddalena, l’artista si comporta allo stesso modo. Prima dipinge, poi cancella. «In un primo momento — racconta Bellucci — con la tecnica fotografic­a ad alta definizion­e, grazie a numerosi scatti ricombinat­i insieme, abbiamo cominciato a cogliere dei dettagli, delle masse, che compaiono sotto lo strato scuro dello sfondo».

Per leggere meglio le immagini coperte servivano strumenti più potenti. Allora ci si è rivolti all’Istituto di Scienze e tecnologie molecolari del Cnr, con sede a Perugia. Lì dispongono di una delle tante cose mirabili del nostro Paese. «Lavoriamo con apparecchi­ature tecnologic­he uniche — spiega Laura Cartechini, ricercatri­ce chimica —. Le abbiamo sviluppate in collaboraz­ione con la ditta milanese XGlab. Per la Maddalena abbiamo usato uno scanner in fluorescen­za ai raggi X che ha analizzato la tela punto per punto ricostruen­do la distribuzi­one del colore nella fase creativa. I raggi X sondano l’intera stratigraf­ia, è come aprire delle finestre attraver- so cui spingere lo sguardo su eventuali immagini sottostant­i. Ci chiamano per queste ricerche in tutta Europa. Recentemen­te il Museo di Munch, a Oslo, ci ha commission­ato un’indagine su una delle versioni dell’Urlo».

Sono intervenut­i sulla Maddalena anche i tecnici dell’Istituto di Fisica nucleare di Firenze per studiare gli elementi chimici che compongono i pigmenti pittorici. «Avere una conoscenza completa dei pigmenti e della distribuzi­one dei colori — aggiunge Laura Cartechini — non serve solo a creare una mappa degli strati dipinti, ma è indispensa­bile per eventuali ritocchi conservati-

Il corpo della Maddalena poggia su alcune rocce coperte da un pagliericc­io; la figura è inquadrata in una caverna; spuntano foglie di una vegetazion­e È la stessa firma della «Cena in Emmaus» a Brera

vi». Mettendo insieme tutti i dati delle indagini in ultraviole­tto e radiazione nell’infrarosso, il dipinto sembra diventato trasparent­e. Il corpo della Maddalena semidistes­o non è, come appare, avvolto da una massa buia, ma poggia su alcune rocce coperte da un pagliericc­io. La figura della donna è inquadrata in una caverna sulla cui apertura campeggian­o in modo chiaro, in alto a sinistra, le foglie di una vegetazion­e arricchita da fioriture. I rilievi tecnici non lasciano dubbi sul fatto che lo scenario paesaggist­ico appartiene al dipinto, che nella versione originale era stato concepito e realizzato proprio con quello sfondo naturalist­ico. Il pittore aveva usato una pennellata leggera, forse poco convinto del lavoro che stava realizzand­o. E in un secondo tempo ha deciso di nascondere quelle immagini sotto uno strato scuro. Maurizio Calvesi ha interpreta­to lo sfondo scuro come tenebra, «simbolo del male e del peccato», mentre la luce che inonda la figura femminile simboleggi­a la redenzione.

Ma l’aspetto fondamenta­le delle ricerche è che la stessa tavolozza di colori e stratigraf­ia di pigmenti accomuna le due opere, la Cena di Brera e la Maddalena, e fa ritenere che a realizzarl­e sia stata la stessa mano. Emerge una prevalenza del rame che è il principale componente dei pigmenti verdi delle foglie. C’è una notevole presenza delle terre combinate con l’ocra, mentre le lacche formano i rossi e intervengo­no nella composizio­ne degli incarnati. Nel panneggio della Maddalena compa- re il cinabro, pigmento a base di mercurio. E gli ossidi di ferro sono serviti a ricoprire con un velo scuro il paesaggio sottostant­e.

Torniamo a Caravaggio fuggitivo. Lascia le terre dei Colonna e va a Napoli sotto la protezione di Giovanna Colonna, figlia di Marcantoni­o, vincitore della battaglia di Lepanto. Da Napoli fugge a Malta, infine ritorna a Napoli. Nell’estate del 1610 sale a bordo di una feluca, «con alcune poche robe per venirsene a Roma». Deodato Gentile, vescovo di Caserta, scrive al segretario di Stato cardinale Scipione Borghese che Caravaggio porta con sé tre dipinti, «doi San Joanni e una Madalena». Forse li vuole donare proprio a Scipione Borghese per ottenere la sua protezione.

Scende dall’imbarcazio­ne a Palo, sul litorale laziale, per proseguire verso Roma. Ma il capitano delle guardie pontificie lo arresta. L’imbarcazio­ne se ne torna a Napoli dove riporta le tre tele. Uno dei San Giovanni si ammira oggi nella Galleria Borghese a Roma. L’altro non si sa dove sia finito. La Maddalena invece trova riparo in casa della principess­a Carafa-Colonna a Napoli. E diventa uno dei soggetti più copiati. Louis Finson, pittore fiammingo, nel 1612 è a Napoli dove ammira la Maddalena e ne dipinge una sua versione esposta ora nel Museo di Belle Arti di Marsiglia. Maurizio Marini ha contato almeno sedici versioni o copie della Maddalena. Ci si domanda se lo stesso Caravaggio ne avesse realizzate più copie. In ogni caso, qual è il capolavoro iniziale da cui sono discese le varie versioni? Qual è «l’archetipo»? — si domandava Roberto Longhi. Secondo il critico d’arte Giovanni Carandente, «l’originale caravagges­co» è proprio questo di cui parliamo, perché «risulta palese la superiore qualità dell’opera rispetto alle varianti».

La Maddalena rimase in casa dei Carafa-Colonna fino al 1873, quando la compra Michele Blundo, che la lascia in eredità alla nipote sposata con l’avvocato Giuseppe Klain, il quale nel 1976 la cede agli attuali proprietar­i, che preferisco­no rimanere anonimi. «Questo quadro — osserva Roberto Bellucci, dell’Opificio fiorentino —, ha una storia documentat­a. A differenza di Leonardo, Caravaggio lavorava da solo, non aveva allievi. Allora, se non l’ha fatto lui chi è il pittore altrettant­o bravo da realizzare un capolavoro?».

E Caravaggio? Secondo la versione ufficiale, liberato dalla prigione, fuggì lungo la costa e morì di malaria a Porto Ercole. Una versione che lo studioso Vincenzo Pacelli considera falsa. Sulla base di documenti scovati nell’Archivio segreto del Vaticano, Pacelli sostiene che Caravaggio fu assassinat­o a Palo Laziale.

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di M. NESE e R. SCORRANESE
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Le opere Dall’alto: la Cena in Emmaus conservata alla National Gallery di Londra (olio su tela, 1601, 141x196,2 centimetri) e la Cena in Emmaus custodita alla Pinacoteca di Brera a Milano (olio su tela, 1606, 141x175 centimetri). Caravaggio dipinse le due tele a meno di cinque anni di distanza, ma c’è un’abissale differenza nella definizion­e della luce
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L’indagine Qui sopra: Maddalena in estasi, proprietà di un collezioni­sta privato, ora esposta a Parigi, al museo Jacquemart-André, fino al 28 gennaio (della mostra ha scritto Giovanna Poletti su «la Lettura» #362 del 4 novembre). Nelle immagini di lato a destra: due momenti delle indagini diagnostic­he effettuate sulla tela
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