Corriere della Sera - La Lettura
Il moschettiere Aramis divenne donna
Trasposizioni Cinema e televisione attingono dai romanzi. E giocano con le variazioni
Reazioni Nei film «tratti da...» spesso conosciamo già gli elementi della storia e per questo ci sentiamo ancora più coinvolti
Alice è una creatura di Lewis Carroll. E anche di Walt Disney, in un certo senso. Un senso così potente che la prima immagine di Alice che ci viene in mente è quasi sempre quella del film animato uscito nel 1951. Disney adatta il romanzo, come altri classici, e se ne appropria: la sua versione diventa a sua volta un classico, consumato da generazioni di bambini e genitori.
Nel 2010 Tim Burton realizza sempre per Disney, intesa come casa di produzione, una nuova versione del romanzo, o meglio una sua continuazione: per sfuggire a un fidanzamento, un’Alice diciannovenne sceglie ancora una volta di seguire il Bianconiglio e incontra di nuovo il Cappellaio Matto, che ha le sembianze surreali di Johnny Depp. Adattare, variare, prolungare: c’è anche un’altra Alice a fir- ma Walt Disney. Siamo agli inizi degli anni Venti. Walt è giovanissimo e fonda i Laugh-O-Gram Films, producendo favole animate in chiave parodistica. A causa di problemi finanziari, però, Walt chiude lo studio e vuole lasciare l’animazione per dedicarsi al cinema dal vero. Prima del fallimento, ha prodotto un corto, dal titolo Ali
ce in Cartoonland. Walt lo fa comunque circolare, e ottiene così il finan- ziamento per una serie da un distributore, Margaret J. Winkler. Questa Alice salva Disney, che rifonda il suo studio. Questa Alice è, come le successive, figlia di Carroll ma anche di Disney e soprattutto del cinema di quel periodo. Un cinema nel quale l’animazione ha ancora un ruolo a parte: sono follie visive nel senso che sono solo linee disegnate su di uno schermo, non sono un doppio plausibile del reale. Questa Alice è allora una ragazzina in carne e ossa che entra letteralmente in un mondo delle meraviglie, quello appunto del cartoon, nel quale tutto è possibile perché una linea può diventare un’altra e così via. D’altra parte, che Alice potesse andare oltre il testo originale, viaggiando in altri media, era ovvio fin dalla prima sua pagina: «“A che serve un libro” pensò Alice “senza illustrazioni e dialoghi?”».
Il cinema è un’illustrazione in movimento che si approfitta subito della pagina scritta. Nel 1902 con Le voyage
dans la lune, Georges Méliès adatta molto liberamente o meglio riscrive sullo schermo i romanzi di Jules Verne e H. G. Wells. Inizialmente i film rubano solo alcuni momenti chiave ai celebri romanzi, spesso mostrandoli come spettacolo a sé stante di pochi minuti.
Allora il cinema era ancora pura attrazione: il movimento delle immagini, la loro abnorme grandezza, la sorpresa continua ripagavano il prezzo del biglietto. Attorno però al 1907, il cinema non vuole essere più solo un intrattenimento da fiera. Vuole acquisire dignità e legittimità. Vuole conquistare un pubblico sempre più bor- ghese e abbracciare la narrazione. E allora il romanzo (dopo il teatro) non solo è sempre più la fonte ma è anche la forma cui guardare per creare un linguaggio narrativo cinematografico autonomo, quello che oggi tutti noi leggiamo come «naturale».
Non è facile all’inizio: nelle recensioni, questi film vengono definiti come incomprensibili a meno di non conoscere già la storia da cui sono tratti. Eppure, qualcosa di quella antica sensazione rimane anche oggi di fronte a film, serie, cartoni animati tratti da un celebre romanzo. Non ci risultano certo incomprensibili, ma in qualche modo paiono richiamare spesso in causa un nostro sapere pregresso, generando così uno strano sdoppiamento. Non è solo questione di rispetto della pagina scritta, un tema abusato che finisce per generare le stesse posizioni: fedeltà alla lettera contro fedeltà allo spirito, «l’opera adattata è sempre altra rispetto all’originale» contro «guai a cambiare qualsiasi cosa». È uscito da poco in Italia Moschet
tieri del Re. La penultima missione di Giovanni Veronesi, con Pierfrancesco Favino (D’Artagnan), Valerio Mastandrea (Porthos), Rocco Papaleo (Athos), Sergio Rubini (Aramis). Il film tanto ironico quanto sgangherato, con alcune scene d’insieme riuscite ma con una trama spesso lacunosa. Come in altri film «tratti da», però, lo spettatore è chiamato in causa perché già conosce gli elementi base di quella storia. Riempie i buchi, in senso positivo e negativo: apprezza quello che c’è di diverso e/o classico, rimpiange quello che c’è di diverso e/o classico. Questo sapere inizia da ragazzi, leggendo il libro o più spesso ormai vedendo qualche adattamento. Per poi tornare alla fonte originale, per poi perdersi in mille altre versioni.
Negli anni Ottanta, i ragazzini scoprivano i classici anche grazie agli adattamenti animati giapponesi: da
Heidi a Piccole donne fino appunto anche a I tre moschettieri. In questa versione arrivata sui nostri piccoli schermi, Aramis era... una donna. Adattare, variare, prolungare: quando la storia è già nota, il gioco tra libro, opera audiovisiva e spettatore pare consistere nell’assaporare, accettare, rifiutare la variazione nella ripetizione. È un gioco seriale: c’è un testo ori- L’autrice La visualizzazione di questa settimana è stata realizzata da Giulia De Amicis, information designer e illustratrice che lavora a Milano ginale, di cui più o meno abbiamo chiari i contorni, che replichiamo infinite volte per godere ancora e sempre della stessa storia con piccole o grandi variazioni. Una storia che, seppur conclusa nella pagina scritta, diventa infinita grazie ad altri media, si interrompe e ricomincia fino alla prossima versione, fino al prossimo adattamento.
Il libro originale è come la narratrice Shahrazàd: moltiplica sé stesso in film e serie e cartoon per mille e una notte. E noi siamo come il re Shahriyàr, pronti a risentire quella storia per mille e una notte. E forse siamo anche come Anni eWilk es, tanto l’ archetipo del lettore assiduo quanto una psicopatica assassina, creata da Stephen King in Misery. Anche da quel libro è stato tratto un film.