Corriere della Sera - La Lettura
L’Amleto di Praga ha qualcosa da dirci
Torna, oltre 50 anni dopo la sua pubblicazione, il testo del cecoslovacco Vladimír Holan nella traduzione di Angelo Maria Ripellino. Una voce che in Italia ha risuonato a lungo
Tra le leggende della cultura del Novecento un posto importante è occupato dalla Praga del romanzo e della poesia. Per il pubblico italiano questo mito ha avuto indiscutibilmente un cantore eminente, vale a dire Angelo Maria Ripellino, che con la sua appassionata e insieme scrupolosa attività d’interprete, di traduttore, di saggista, ha conferito un risalto inedito alla vitalità artistica e intellettuale di una città per altro segnata nel profondo dalle ferite della storia. E proprio all’intersezione tra storia, letteratura e vita comune ha voluto fissarla nel suo libro più riuscito, Praga magica (1973), un attraversamento dei luoghi cittadini, del loro retaggio e del loro presente, in cui è riuscito nella non facile impresa di unire la competenza dello studioso all’entusiasmo, alla fedeltà, al pathos di chi quella città ha amato e continuato a frequentare per l’intero corso della propria esistenza.
Tra gli autori più amati da Ripellino rientra sicuramente Vladimír Holan, che non sono pochi a ritenere, anche tra i diretti interessati, il massimo poeta ceco del secolo scorso (ed è stato certo un secolo di grande poesia: Nezval, Seifert, Orten, Halas, tra gli altri). Nel 1966 uscì per Einaudi la sua traduzione di Una notte con Amleto e altre poesie, un volume che prendeva il titolo dal poemetto da cui principalmente sarebbe derivata la fama internazionale di Holan, e che lo scrittore italiano fu comunque il primo in assoluto a tradurre (era uscito in lingua originale solo due anni prima). Ripellino tornò poi a più riprese sul suo poeta prediletto, con cui col tempo entrò direttamente in amicizia, ma in ogni caso si può considerare quel primo episodio come il capostipite di una lunga e importante storia italiana dello scrittore ceco, che strada facendo ha visto cimentarsi sui suoi versi traduttori e poeti-traduttori (ammesso che nel merito questa distinzione abbia davvero senso) quali Serena Vitale, Giovanni Giudici, Vlasta Fesslová e Marco Ceriani. Già verso la metà degli anni Settanta, di fatto, Pasolini poteva decretare con qualche solennità sul «Corriere della Sera» che Holan era entrato «nel novero dei poeti letti». La riproposta di una traduzione storica qual è Una notte con Amleto e altre poesie, vale allora, a distanza di più di cinquant’anni, come un riconoscimento non solo al poeta ma al suo studioso e traduttore più significativo.
A parte una breve stagione subito successiva alla Seconda guerra mondiale, la vicenda poetica di Holan sembra svolgersi senza un coinvolgimento diretto con gli accadimenti terribili della storia ceca e più generalmente europea del Novecento. Non si troverà infatti nella sua poesia il circuito di azione e reazione immediata tra le sollecitazioni storiche e le risposte della scrittura che distingue i poeti dell’impegno diretto. «L’antico schiaffo, che Lucrezia diede al suo seduttore,/ echeggia nel cigno solo ora stanato,/ che batte l’ala contro la fertile acqua.../ Lo spazio in apparenza enorme tra le due azioni/ oscilla dall’odio del peso sino alla storia», scrive ad esempio. Si tratta allora di un poeta eminentemente metafisico, in quanto tutto proteso a comprendere — che nel suo caso significa poi demistificare — struttura, consistenza, senso complessivo della realtà in quanto tale. Cerca infatti di riportare ogni volta figure, cose ed eventi a una ragione sostanziale. Anche se poi bisogna aggiungere che, sotto il suo sguardo de-realizzante, di sostanza, riferimenti, fondamenti, ne rimangono ben pochi, forse nessuno.
Non è per accidente che una delle immagini più ricorrenti di questa poesia sia quella del muro, a indicare anzitutto l’ostacolo, la barriera, il rapporto indiretto tra il poeta e la realtà esterna, che di- venteranno tanto più concreti durante gli anni del dissidio di Holan con le autorità culturali del Partito comunista cecoslovacco. A partire dal 1948, per un quindicennio gli furono anche interdette le pubblicazioni, tant’è che tutte le opere scritte in questo periodo, tra cui Una notte con Amleto, hanno visto la luce solo dopo il 1963. Sono questi gli anni in cui Holan, che non a caso è un poeta notturno, si sottrae a ogni contatto col mondo esterno, preferendo la reclusione volontaria nella propria casa di Kampa, un’isola sulla Vtlava, alla recita di una partecipazione pubblica soltanto apparente. Di qui l’immagine del poeta murato, che ha dato il titolo a un’antologia del 1991 curata da Vladimír Justl e Giovanni Raboni. La «fiamma» dello scrittore solitario, commenta Ripellino, «splendeva nella notte di Praga, come il lucìgnolo d’una capanna sperduta».
Holan è un poeta impietoso, con un immaginario poetico d’inusuale violenza, a tratti persino truce, feroce. Ed è un poeta della negazione. Solo che nel suo caso le constatazioni metafisiche al negativo (una delle parole a cui più è fedele è «nulla»: l’«ossuta scultura/ del nulla sul nulla»), anziché procedere verso una rappresentazione rarefatta, disincarnata o astratta, sono invece intrise della più concreta, greve e mortale materia terrestre. «È proprio il reale/ che è metafisico...», dice un suo distico. Contrariamente agli orientamenti più nichilisti della poesia del secondo Novecento, non si assiste qui a una spoliazione del mondo ad opera dell’azione corrosiva della ragione. Sicuramente in questo contribuisce anche la sua formazione cattolica. In ogni caso, la sua non è quel che si dice una poesia di pensiero. Al contrario, nei suoi versi si assiste quasi sempre a un autentico trionfo della morte. Volendo fare un raffronto con l’arte figurativa, questi quadri poetici possono essere accostati alle figure distorte e alle cancrene di Francis Bacon, piuttosto che agli orizzonti metafisici di Nicolas De Staël.
Di conseguenza, non va affatto considerato un poeta al di fuori della storia. Al contrario, le ferite, le angosce, il senso d’insicurezza radicale del tempo che gli è stato dato (l’occupazione nazista, il regime comunista) sostanziano nel profondo le sue immagini e i suoi temi ossessivi: la storia come deperimento e rovina, la madre, l’infanzia, la sessualità funebre, la corporeità disfatta, la poesia («L’arte cominciò con la caduta degli angeli»), la notte, la cecità, il muro, la parificazione tra vivi e morti. Così, semmai, importa avvertire che la realtà si è trasformata e come delucidata a se stessa durante il processo di trasfusione metaforica: «Gli orrori da lui vissuti superavano il limite loro assegnato,/ facendosi assurdi... o s’erano forse mutati,/ per divenire ormai qualcos ’altro...». Anche nel poemetto eponimo, che si può considerare il punto di massimo inarcamento delle spinte espressioniste e delle vertigini barocche di Holan, proprio l’esplosione del «magma metaforico» e delle «oniriche incongruenze», come ha notato Ripellino, di fatto «rendono superbamente la precarietà di quegli anni». E del resto, come scrive Holan offrendo la definizione forse più nitida del proprio nucleo lirico, «se un uomo non si sente perduto, è perduto/ a tutto ciò che si svolge negli altri/ e che avviene in lui».