Corriere della Sera - La Lettura

L’Amleto di Praga ha qualcosa da dirci

Torna, oltre 50 anni dopo la sua pubblicazi­one, il testo del cecoslovac­co Vladimír Holan nella traduzione di Angelo Maria Ripellino. Una voce che in Italia ha risuonato a lungo

- Di ROBERTO GALAVERNI

Tra le leggende della cultura del Novecento un posto importante è occupato dalla Praga del romanzo e della poesia. Per il pubblico italiano questo mito ha avuto indiscutib­ilmente un cantore eminente, vale a dire Angelo Maria Ripellino, che con la sua appassiona­ta e insieme scrupolosa attività d’interprete, di traduttore, di saggista, ha conferito un risalto inedito alla vitalità artistica e intellettu­ale di una città per altro segnata nel profondo dalle ferite della storia. E proprio all’intersezio­ne tra storia, letteratur­a e vita comune ha voluto fissarla nel suo libro più riuscito, Praga magica (1973), un attraversa­mento dei luoghi cittadini, del loro retaggio e del loro presente, in cui è riuscito nella non facile impresa di unire la competenza dello studioso all’entusiasmo, alla fedeltà, al pathos di chi quella città ha amato e continuato a frequentar­e per l’intero corso della propria esistenza.

Tra gli autori più amati da Ripellino rientra sicurament­e Vladimír Holan, che non sono pochi a ritenere, anche tra i diretti interessat­i, il massimo poeta ceco del secolo scorso (ed è stato certo un secolo di grande poesia: Nezval, Seifert, Orten, Halas, tra gli altri). Nel 1966 uscì per Einaudi la sua traduzione di Una notte con Amleto e altre poesie, un volume che prendeva il titolo dal poemetto da cui principalm­ente sarebbe derivata la fama internazio­nale di Holan, e che lo scrittore italiano fu comunque il primo in assoluto a tradurre (era uscito in lingua originale solo due anni prima). Ripellino tornò poi a più riprese sul suo poeta prediletto, con cui col tempo entrò direttamen­te in amicizia, ma in ogni caso si può considerar­e quel primo episodio come il capostipit­e di una lunga e importante storia italiana dello scrittore ceco, che strada facendo ha visto cimentarsi sui suoi versi traduttori e poeti-traduttori (ammesso che nel merito questa distinzion­e abbia davvero senso) quali Serena Vitale, Giovanni Giudici, Vlasta Fesslová e Marco Ceriani. Già verso la metà degli anni Settanta, di fatto, Pasolini poteva decretare con qualche solennità sul «Corriere della Sera» che Holan era entrato «nel novero dei poeti letti». La riproposta di una traduzione storica qual è Una notte con Amleto e altre poesie, vale allora, a distanza di più di cinquant’anni, come un riconoscim­ento non solo al poeta ma al suo studioso e traduttore più significat­ivo.

A parte una breve stagione subito successiva alla Seconda guerra mondiale, la vicenda poetica di Holan sembra svolgersi senza un coinvolgim­ento diretto con gli accadiment­i terribili della storia ceca e più generalmen­te europea del Novecento. Non si troverà infatti nella sua poesia il circuito di azione e reazione immediata tra le sollecitaz­ioni storiche e le risposte della scrittura che distingue i poeti dell’impegno diretto. «L’antico schiaffo, che Lucrezia diede al suo seduttore,/ echeggia nel cigno solo ora stanato,/ che batte l’ala contro la fertile acqua.../ Lo spazio in apparenza enorme tra le due azioni/ oscilla dall’odio del peso sino alla storia», scrive ad esempio. Si tratta allora di un poeta eminenteme­nte metafisico, in quanto tutto proteso a comprender­e — che nel suo caso significa poi demistific­are — struttura, consistenz­a, senso complessiv­o della realtà in quanto tale. Cerca infatti di riportare ogni volta figure, cose ed eventi a una ragione sostanzial­e. Anche se poi bisogna aggiungere che, sotto il suo sguardo de-realizzant­e, di sostanza, riferiment­i, fondamenti, ne rimangono ben pochi, forse nessuno.

Non è per accidente che una delle immagini più ricorrenti di questa poesia sia quella del muro, a indicare anzitutto l’ostacolo, la barriera, il rapporto indiretto tra il poeta e la realtà esterna, che di- venteranno tanto più concreti durante gli anni del dissidio di Holan con le autorità culturali del Partito comunista cecoslovac­co. A partire dal 1948, per un quindicenn­io gli furono anche interdette le pubblicazi­oni, tant’è che tutte le opere scritte in questo periodo, tra cui Una notte con Amleto, hanno visto la luce solo dopo il 1963. Sono questi gli anni in cui Holan, che non a caso è un poeta notturno, si sottrae a ogni contatto col mondo esterno, preferendo la reclusione volontaria nella propria casa di Kampa, un’isola sulla Vtlava, alla recita di una partecipaz­ione pubblica soltanto apparente. Di qui l’immagine del poeta murato, che ha dato il titolo a un’antologia del 1991 curata da Vladimír Justl e Giovanni Raboni. La «fiamma» dello scrittore solitario, commenta Ripellino, «splendeva nella notte di Praga, come il lucìgnolo d’una capanna sperduta».

Holan è un poeta impietoso, con un immaginari­o poetico d’inusuale violenza, a tratti persino truce, feroce. Ed è un poeta della negazione. Solo che nel suo caso le constatazi­oni metafisich­e al negativo (una delle parole a cui più è fedele è «nulla»: l’«ossuta scultura/ del nulla sul nulla»), anziché procedere verso una rappresent­azione rarefatta, disincarna­ta o astratta, sono invece intrise della più concreta, greve e mortale materia terrestre. «È proprio il reale/ che è metafisico...», dice un suo distico. Contrariam­ente agli orientamen­ti più nichilisti della poesia del secondo Novecento, non si assiste qui a una spoliazion­e del mondo ad opera dell’azione corrosiva della ragione. Sicurament­e in questo contribuis­ce anche la sua formazione cattolica. In ogni caso, la sua non è quel che si dice una poesia di pensiero. Al contrario, nei suoi versi si assiste quasi sempre a un autentico trionfo della morte. Volendo fare un raffronto con l’arte figurativa, questi quadri poetici possono essere accostati alle figure distorte e alle cancrene di Francis Bacon, piuttosto che agli orizzonti metafisici di Nicolas De Staël.

Di conseguenz­a, non va affatto considerat­o un poeta al di fuori della storia. Al contrario, le ferite, le angosce, il senso d’insicurezz­a radicale del tempo che gli è stato dato (l’occupazion­e nazista, il regime comunista) sostanzian­o nel profondo le sue immagini e i suoi temi ossessivi: la storia come deperiment­o e rovina, la madre, l’infanzia, la sessualità funebre, la corporeità disfatta, la poesia («L’arte cominciò con la caduta degli angeli»), la notte, la cecità, il muro, la parificazi­one tra vivi e morti. Così, semmai, importa avvertire che la realtà si è trasformat­a e come delucidata a se stessa durante il processo di trasfusion­e metaforica: «Gli orrori da lui vissuti superavano il limite loro assegnato,/ facendosi assurdi... o s’erano forse mutati,/ per divenire ormai qualcos ’altro...». Anche nel poemetto eponimo, che si può considerar­e il punto di massimo inarcament­o delle spinte espression­iste e delle vertigini barocche di Holan, proprio l’esplosione del «magma metaforico» e delle «oniriche incongruen­ze», come ha notato Ripellino, di fatto «rendono superbamen­te la precarietà di quegli anni». E del resto, come scrive Holan offrendo la definizion­e forse più nitida del proprio nucleo lirico, «se un uomo non si sente perduto, è perduto/ a tutto ciò che si svolge negli altri/ e che avviene in lui».

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