Corriere della Sera - La Lettura
Forgiati dalla società ma su base biologica
L’analisi di Eric Kandel sulle diverse forme di disturbo psichico dimostra con chiarezza che l’alterazione mentale non può essere ridotta né a una malattia dell’anima né a una risposta deviante all’oppressione sociale
Nel 1980 Franco Basaglia comincia lo smantellamento del manicomio di Trieste. È l’esito di un percorso che inizia nel 1961, al manicomio di Gorizia, e che porta alla promulgazione della legge Basaglia, quella che Norberto Bobbio chiama l’unica vera riforma fatta in Italia. Un giorno del 1980, alla vigilia della chiusura del manicomio, ero lì a Trieste con molti altri sostenitori di Basaglia a trascorrere la notte parlando con i suoi degenti e operatori sanitari. Come specializzando in psichiatria, con una tesi sulla logica del pensiero schizofrenico, ero rimasto attratto dal movimento dell’antipsichiatria sia per la sua valenza sociale e politica, sia per le sue implicazioni epistemologiche (che incontravano, però, il mio scetticismo). Passeggiando per i reparti del nosocomio quella notte, ciò che si respirava era sicuramente l’ebbrezza di una vittoria politica, ma soprattutto l’affermazione di una rivoluzione copernicana della teoria della malattia mentale.
Basaglia aveva iniziato nel 1961 a Gorizia il suo attacco alla istituzione manicomiale. In quel periodo e nei successivi anni Settanta il panorama culturale in Europa era dominato da un presa di posizione radicale contro il concetto di malattia mentale. Ronald Laing con il suo Io diviso, Michel Foucault con Storia della follia e Il potere psichiatrico, David Cooper con Il linguaggio della follia erano alcuni degli autori, fra i tanti, che mettevano in discussione la realtà stessa della malattia mentale. Ciò che veniva considerato pazzia era in realtà soprattutto il prodotto sociale di un disegno politico di dominio ed emarginazione del diverso. La malattia mentale era considerata, come molti altri concetti scientifici, una costruzione sociale senza alcuna realtà ontologica
Questa posizione radicale aveva come principale bersaglio la psichiatria scientifica tradizionale, soprattutto quella che affermava, sulla falsariga di Emil Kraepelin e Philippe Pinet, la natura biologica della malattia mentale e la necessità delle varie camicie di forza chimiche, oltre che fisiche, cioè della terapia farmacologica come mezzo di cura e di contenimento. Fra questi due estremi stava la psicoterapia nelle sue varie accezioni psicodinamiche, sistemico-relazionali, fenomenologiche, esistenzialistiche eccetera. La malattia mentale era riconosciuta come reale, ma ricondotta a una dimensione non neurale e biologica, ma ad una di tipo mentalistico e non corporea. L’azione della psicoterapia era caratterizzata da questa premessa di fondo dualistica che separava la mente dal corpo.
Eric Kandel, premio Nobel per la Medicina nel 2000, psichiatra e neuroscienziato della Columbia University, nel suo libro La mente alterata (Raffaello Cortina) parte proprio da questa divaricazione e si pone una domanda: è possibile, alla luce delle conoscenze attuali della genetica e delle neuroscienze, trovare una sintesi che integri influenza dell’ambiente sociale, ruolo delle terapie psicologiche e dimensione biologica della alterazione mentale? La sua risposta ottimistica è che sia possibile e che ciò rappresenti una nuova sintesi umanistica che possa unire natura e società. Vediamo come, attraverso tre esempi.
L’uomo è geneticamente un animale sociale. Il suo sviluppo mentale ed i suoi processi decisionali sono costantemente influenzati da quello che fanno gli altri. L’utilizzo di euristiche sociali, cioè di regole decisionali di imitazione del comportamento altrui, ci dà il vantaggio di risolvere molti problemi, senza dovere trovare la soluzione da soli. La capacità di imitazione e di interazione sociale si basa sulla capacità di leggere o di simulare (esistono due scuole di pensiero concorrenti su questo tema) la mente ed il comportamento dell’altro.
Leslie Brothers dell’University of California Los Angeles ha individuato una serie di regioni celebrali interconnesse che elaborano l’informazione sociale. Questo «cervello sociale» è composto di varie parti responsabili dell’emozione (amigdala), dell’interpretazione del moto biologico (solco temporale superiore), della simulazione del comportamento altrui (neuroni specchio) e del riconoscimento del volto (corteccia temporale inferiore). Attraverso la risonanza magnetica funzionale Stephen Gotts e colleghi del National Institute of Mental Health hanno recentemente scoperto che negli autistici il circuito neuronale del cervello sociale è alterato. In particolare questa alterazione spiega due importanti caratteristiche della persona autistica: la difficoltà a capire il significato del movimento biologico, come tendere una mano o camminare verso un’altra persona; la incapacità a capire il rapporto fra sguardo ed intenzione ed in tal modo anticipare e simulare il comportamento altrui. A dispetto di chi, come Bruno Bettelheim, sosteneva che l’autismo non avesse una base biolo- gica, ma che fosse il risultato di una cattiva cura materna (la infausta e colpevolizzante teoria della «madre frigorifero»), la ricerca odierna non solo ha individuato i meccanismi neurali alla sua base, ma sta scoprendo anche le mutazioni genetiche coinvolte. Partendo da una constatazione: nei gemelli omozigoti, cioè che hanno lo stesso assetto genetico, la probabilità che entrambi siano autistici è del 90 per cento.
Se nel caso dell’origine dell’autismo l’influenza ambientale non sembra rilevante, come difficile è la possibilità di cura attraverso la terapia psicologica, in altre forme di disturbo mentale il ruolo biologico dell’ambiente sociale e della terapia psicologica sembra molto più significativo. Con ruolo biologico si intende la capacità di modificare le connessioni sinaptiche responsabili dell’alterazione mentale.
Questo è un punto qualificante per Kandel, che gli permette di parlare di sinergia fra farmacologia e psicoterapia. Come la terapia farmacologica è da considerare una cura di tipo biologico che agisce sui mediatori e sui recettori sinaptici, così lo è anche la psicoterapia cognitivo-comportamentale (che, come sottolinea giustamente l’articolo della scorsa settimana di Giancarlo Dimaggio, è attualmente l’unica a saper affrontare con successo una serie di disturbi). E ciò è dimostrato dalla risonanza magnetica funzionale, in cui si evidenzia l’effetto della psicoterapia sulla attivazione delle aree celebrali.
Un esempio fra tutti è quello della depressione. Oggigiorno è possibile, attraverso la risonanza, indicare quali pazienti hanno bisogno di psicoterapia e quali necessitano anche della cura farmacologica. Helen Mayberg della Emory University ha individuato, tempo fa, il circuito neurale della depressione ed ha scoperto che quando l’attività basale di un suo componente, l’insula anteriore destra, responsabile dell’ autocoscienza e dell’ esperienza sociale, è sotto la media, le persone rispondono bene alla psicoterapia en on all’ antidepressivo. Mentre l’ opposto avviene quandol’ attività basale è sopra la media.
Questa comprensione delle basi neurali del disturbo mentale non sempre, però, è possibile. La schizofrenia, ad esempio continua ad essere un campo minato, in cui la conoscenza è ancora frammentaria. Sicuramente vi sono prove che i circuiti mediati dalla dopamina siano implicati nella malattia. Da ciò l’effetto terapeutico di alcuni farmaci anti dopaminergici. Forse sembra esserci anche una componente di tipo genetico. Il dato recente più interessante riguarda, però, il suo collegamento con la riduzione della funzionalità della memoria di lavoro, a cominciare dal periodo adolescenziale. Questo deficit sembra derivare da una alterazione anatomica nella corteccia prefrontale (quella che sovrintende ai nostri processi decisionali), in particolare la riduzione delle connessioni sinaptiche in un tipo particolare di neuroni, chiamati piramidali, che avverrebbe durante l’adolescenza.
La strada è ancora lunga per realizzare l’ambizione umanistica di Kandel. Talvolta il libro eccede in fatto di ottimismo sul raggiungimento attuale di questa sintesi. Certo è che bisogna accogliere il suo messaggio centrale che l’alterazione mentale non possa ridursi né ad una malattia dell’anima né ad una risposta deviante all’oppressione sociale. Siamo entità corporee, programmate geneticamente e modellate dall’ambiente. L’alterazione delle nostre funzioni mentali può essere affrontata solo considerando in modo integrato tutte e tre le dimensioni.
La schizofrenia continua a essere una sorta di campo minato su cui la nostra conoscenza è ancora frammentaria