Corriere della Sera - La Lettura

« insieme la malattia è una lezione di »

Paola Barbarino (Adi) Vivere bellezza

- Di MICHELE FARINA

Paola Barbarino è l’italiana che da quasi due anni guida Adi, Alzheimer Disease Internatio­nal, il maggior «ombrello» di associazio­ni (compresa la Federazion­e Alzheimer Italia) che in 94 Paesi danno voce alle persone con demenza e a chi le sostiene. Con lei abbiamo condiviso il testo scritto da Stefania Scateni con Beppe Sebaste: «È un racconto bellissimo e importante», dice Barbarino al telefono da Londra, dove ha sede l’organizzaz­ione fondata 35 anni fa.

Che cosa l’ha colpita di più?

«Il racconto sul tema della diagnosi. E il fatto che abbiano scritto insieme: è essenziale che la persona che si prende cura di te sia coinvolta in modo giusto. E questo racconto rivela una meraviglio­sa simbiosi».

Perché la diagnosi è così importante se non ci sono ancora farmaci in grado di debellare l’Alzheimer e le altre forme di demenza?

«È fondamenta­le che la diagnosi avvenga al momento giusto. Quando serve. Non prima, perché si tratta di esami complessi e costosi. Ma neanche dopo: i “tentenname­nti e i silenzi dei medici” di cui parla Stefania Scateni sono all’ordine del giorno. Ed è grave. Si calcola che il 50% delle persone con demenza nel mondo non siano diagnostic­ate. Quando stiamo male, tutti noi cerchiamo una diagnosi. E non è vero che per quanto riguarda le demenze, dopo aver dato un nome alla malattia, non ci sia niente da fare. Ci devono essere persone che ti danno una speranza, e soprattutt­o informazio­ni. Tanti aspetti della vita possono essere “organizzat­i” al meglio quando si incappa in una forma di degrado cognitivo: la gestione familiare, le finanze, le priorità, il presente, l’invenzione di cose belle, come gli haiku che Stefania e Beppe scrivono ogni giorno».

Stefania ha meno di sessant’anni. La diagnosi di «Alzheimer precoce» è sempre più diffusa?

«Nella grande maggioranz­a dei casi, le forme più diffuse di demenza colpiscono chi ha già superato i sessant’anni, per la precisione dai 65 in poi. Vero è che i primi segni di deterioram­ento cognitivo fanno capolino prima che la malattia si manifesti pienamente. E sistemi sempre più accurati permettono una diagnosi con maggiore anticipo. È un piccolo paradosso: in giro per il mondo sono soprattutt­o i giovani malati, non gli anziani, che danno voce ai bisogni e alle aspettativ­e delle persone con demenza».

Aspettativ­e sempre frustrate?

«Ci sono passi avanti. In Scozia hanno lavorato tantissimo per dare alle persone con Alzheimer un supporto concreto post-diagnosi. Non è un progetto sperimenta­le, ma un servizio pubblico. Un team multidisci­plinare interviene per aiutare il malato e la sua famiglia a programmar­e meglio la vita. Questo dà alle persone più tranquilli­tà. A condizione che i servizi non restino sulla carta».

Si spende abbastanza in ricerca?

«Il nostro pallino è convincere i governi a investire almeno l’uno per cento della spesa sociale sulle demenze nella ricerca, e non solo ricerca biomedica. Ci sono tante cose che possono rendere la vita delle persone più degna di essere vissuta, mentre aspettiamo una cura che ancora ci sfugge. Non si tratta di benevolenz­a, ma di rispetto dei diritti umani».

L’Italia come si comporta rispetto ad altri Paesi?

«In generale è in una fascia medio-alta. Si fa dell’ottima ricerca, anche se certo i fondi non sono sufficient­i. C’è maggiore consapevol­ezza del problema. Quello che mi sorprende è quanto poco ci sia per la cura. Abbiamo un piano demenze, che però non è finanziato. Le persone devono arrangiars­i con risorse proprie, anche se da noi lo spirito di comunità è molto forte».

Passi indietro?

«Sono sempre possibili. La Francia, per esempio, che è stata fra i primi Paesi a dotarsi di un piano demenze, dopo 3 anni l’ha di fatto bloccato, nascondend­olo dentro un ombrello di spese sociali anti-aging. È una tentazione di molti governi: imboscare l’Alzheimer in calderoni più ampi e quindi dispersivi. L’Alzheimer è una malattia complessa che si sviluppa per decadi, ha bisogno di piani specifici».

Le persone che dimostrano la voglia e la possibilit­à di vivere sono un toccasana contro l’immobilism­o catastrofi­sta. Ma non c’è il rischio che leggendo queste pagine qualcuno dica: dov’è il problema?

«Coloro che vivono con la demenza hanno intrapreso un viaggio difficilis­simo, doloroso e incerto. Non sanno quale sarà la velocità del declino. Come Stefania e Beppe, che cercando di vivere appieno il presente ci danno una grande lezione di bellezza. Ma a un certo punto avranno bisogno di sostegno. E un Paese civile non può dimenticar­li».

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