Corriere della Sera - La Lettura
Le due monache di Monza
Il Teatro Franco Parenti di Milano mette in scena tra febbraio e marzo — in una coincidenza cronologica — due lavori testoriani dedicati all’infelice eroina manzoniana: Federica Fracassi e Laura Marinoni interpretano Marianna de Leyva
Federica Fracassi: «Abbiamo ridotto i personaggi a tre con una violenza sospesa che aleggia nei voli lunghi di una lingua gonfia e barocca. È la storia di una donna costretta a scelte non condivise che si ripete all’infinito: non è solo la carne che urla e la passione amorosa, ma anche un animale che cerca di reagire». Laura Marinoni: «Quella monaca mi ricorda atroci destini, tutti gli amori proibiti che cerchiamo nella potenza rivoluzionaria dell’amore»
Non una, ma due monache di Monza, Federica Fracassi e Laura Marinoni, si rincorrono e si passano il testimone impersonando lo stesso personaggio nato infelice due volte dal genio assoluto e solitario di Giovanni Testori. Si alterneranno i due ritratti che lo scrittore, in uno dei suoi periodi più ferocemente vitali, dopo L’Arialda, fece di Marianna de Leyva, divenuta suor Virginia Maria, Gertrude nel capolavoro manzoniano. La monaca di Monza è del 1967 ma quando riappare nei meta teatrali Promessi sposi alla prova è il 1983, con la regia di Andrée Ruth Shammah che coabitava e coabita oggi con la sua ispirazione. Nella Monaca di Monza diretta da Valter Malosti (che cura la regia e l’adattamento dell’opera testoriana in scena al Franco Parenti di Milano da febbraio con Federica Fracassi) la sventurata rivive come in una cine-soggettiva la sua vita, scivolando indietro fino al suo indesiderato concepimento.
Ma bisogna riavvolgere un poco il nastro e vedere i precedenti. Questa monaca che torna a esibire la sua sensuale e colpevolissima disperazione, debuttò con Lilla Brignone diretta da Luchino Visconti, non senza polemiche con l’autore, inseguendo un litigio nato sul set di Rocco e i suoi fratelli, che era il principe Miskyn in gita alla Ghisolfa; poi fu la volta di Elio De Capitani che diresse Lucilla Morlacchi, l’unica attrice che visse due volte il personaggio nei due testi. Laura Marinoni che allora, giovanissima allieva, seguiva le prove, ricorda: «L’apparizione di Lucilla come Gertrude sembrava quella di madama Pace nei Sei personaggi anche perché circolava intorno l’aria della trilogia sul teatro di Pirandello, c’era un continuo scambio tra persone e personaggi, come l’abolizione del concetto classico del recitare per una vitale, continua improvvisazione degli attori, ciascuno con i suoi umori e dubbi».
La memoria la porta a evocare nei ricordi Testori che parlava di quel personaggio «come del pilastro nero di tutta la storia, attrazione formidabile per tutti gli altri, l’unica nel romanzo a sopravvivere senza riscatto» — figlia primogenita di un nobile spagnolo, il conte di Monza Martino de Leyva, Marianna, divenuta suor Virginia Maria (1575-1650), entrò in convento a 13 anni, divenne suora a 16, madre di una bambina a 29 e almeno di un altro figlio, frutti della relazione con il pluriomicida Gian Paolo Osio.
Quel grido poetico uscito dalle sbarre dalla cella dove Marianna fu alla fine rinchiusa fu ascoltato, non certo con l’udito fine di Testori, anche dal cinema, non sempre con il dovuto rispetto: si pensi, a parte I promessi sposi, a un film del 1947 di Raffaello Pacini con Paola Barbara avvinta a Rossano Brazzi; a uno di Gallone (1962) esperto di verdiani intrighi d’opera, amanti Giovanna Ralli e il distinto Ferzetti (Lilla Brignone era già nell’ombra), a quello di Visconti (Eriprando stavolta) del 1969 con Anne Heywood e Antonio Sabàto, un cow boy spaghetti nel ruolo di Gian Paolo Osio, che infine ebbe nell’87 il volto giovane di Alessandro Gassmann nel film di Luciano Odorisio con Myriam Roussel, eroina di Godard.
La monaca, la sentenza severissima pontificia, un prototipo della sensualità proibita, un melò disperso nella nebbia della nobiltà lombarda del 1600 con rumor di catene e scie di vesti vellutate. Ma la monaca ebbe pure la sua versione ma- schile, Il monaco di Monza di Sergio Corbucci, con Totò, Macario, Taranto, Lisa Gastoni nel ruolo del titolo e Celentano e Don Backycheb alla no rock in saio: trionfo, 290 milioni d’incasso nel lontano 1964.
Curioso che oggi, cinquant’anni dopo, la monaca torni a strattonarci dall’inferno, mentre noi leggiamo a ritroso il teatro di Testori che ha di suo il dono dell’eternità con una lingua che sfida i linguaggi. E le due brave attrici pronte al velo hanno una complice natura testoriana.
Laura Marinoni — che debutta al Teatro della Pergola di Firenze a marzo e poi arriva al Parenti di Milano subito dopo — ha già avuto in scena sofferenze spirituali: «Ho un destino per le monache e in particolare guardo a questa, da lombarda, con una certa predisposizione che sento nel Dna. Sono stata santa Rita e ho recitato di Testori Passio Laetitiae et Felicitatis e nella riduzione mia e di Malosti la protagonista era ispirata a quella monaca in cui l’autore riconosceva l’ossessione di un essere in ostaggio al destino. Sono figure di grande erotismo e mistero, calate nell’inferno della solitudine».
Federica Fracassi, potentissima Erodiàs, è invece stata finora solo una suorina laica nell’ultimo film di Verdone ( Benedetta follia) ma, riducendo il testo con Malosti, carta bianca dalla famiglia Testori, ha coltivato le radici linguistiche dello scrittore, inserendovi qualche giovanile e profetico brano di suoi racconti. «Non abbiamo modificato nulla, solo tagliato e ridotto i personaggi a tre con una violenza sospesa che aleggia sopra le loro teste nei voli lunghi di una lingua gonfia e addobbata di triplici, barocchi aggettivi. In qualche modo la storia di una donna costretta a scelte non condivise si ripete all’infinito: non è solo la carne che urla e la passione amorosa, ma anche un animale che cerca di reagire». Come l’arsenale delle apparizioni nei Giganti della montagna, la monaca Fracassi convoca i fantasmi del suo passato («somiglio ancora a uno zombie come in Rosmerholm di Ibsen da cui sono reduce»), evocando il memento e il «momento dell’inseminazione del padre, una gravidanza non voluta che peserà per sempre in lei come la colpa di essere venuta al mondo contro il mondo».
In scena, stretti nella forza del destino, la monaca, l’amante Osio e la novizia Caterina, una delle vittime: «È la confessione della grande passione incarnata, il Cristo invocato e maledetto, il Verbo che si è fatto carne e la carne che deve tornare parola. Siamo in un testo di lunghi slanci e respiri violentemente sospesi, chiusi quasi in cella, stretti e costretti: unica reazione il coltello e la bestemmia, invocazione verso una liberazione attesa da sempre invano. C’è in Marianna de Leyva una forza misteriosa e primordiale, ricca di sfumature che s’illuminano nell’unicità del linguaggio disperato e assoluto. Mi piace isolare questa forza del testo, assalire il pubblico con la musicale e sinfonica violenza delle parole e quella visionarietà testoriana che mostra il Lambro e il convento così come li vedeva lui quando li ha scritti».
«Mi piace — conclude Laura Marinoni che sarà diretta dalla Shammah — rimettere alla prova Testori oggi e quel modo di tradire la teatralità classica. Il personaggio di quella monaca mi ricorda atroci destini, tutti gli amori proibiti che cerchiamo nella potenza rivoluzionaria dell’amore che finisce per avere un legame strettissimo con la morte, il gigantesco peccato della Passione. La storia di Virginia è tremenda, mostra una perversione maggiore in chi la punisce rispetto a chi subisce e va moltiplicata per i moltissimi casi accaduti nel corso del tempo. Il fascino sta proprio nel creare un capro espiatorio che la società ha murato vivo: a tutto ciò la tonaca offre un plusvalore eccezionale perché contiene assoluto e divino e il sesso come piacere e condanna».