Corriere della Sera - La Lettura

Magico Sarchiapon­e Nessuno può resisterti

Scritta nel 1698, modificata nei secoli, rappresent­ata a Napoli per oltre 40 anni da Peppe Barra, «La Cantata dei Pastori» continua a incantare il pubblico con i dialoghi fulminanti, la comicità, le allusioni. E con personaggi eterni

- Da Napoli FRANCO CORDELLI

Una semplice lettera scritta a ma nomi invitava qualche giorno fa a Napoli per assistere a una replica de La Cantata dei Pastori. La lettera era firmata da Peppe Barra, La Cantata non l’avevo mai sentita nominare. Dissi sì a prescinder­e dalla mia ignoranza. Dissi sì e non ne sono pentito. Dovrebbero dire sì in tanti di più, amanti del teatro e non amanti, non assidui frequentat­ori di spettacoli dal vivo.

Rinacque, La Cantata, nel 1974 ad opera di Renato De Simone con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, condotta da Concetta e suo figlio Peppe. Erano gli anni in cui si trasferiro­no a Marigliano, nell’entroterra napoletano, Leo De Berardinis e Perla Peragallo, in fuga da Roma, per ritrovare traccia delle radici. Di che se non di quanto il teatro d’avanguardi­a andava sperimenta­ndo, ossia la medesima cosa che La Cantata presuppone­va dal lontano 1698, anno della sua nascita?

La Cantata, come attestò l’autore Andrea Perrucci l’anno dopo, nasceva nell’ambito teorico descritto nel suo trattato Dell’arte rappresent­ativa, premeditat­a e all’improvviso: proprio ciò che Leo e Perla fecero in uno degli spettacoli cruciali di quel decennio, ’O Zappatore, e più tardi in tanti altri, classici cui venivano apportate variazioni «all’improvviso».

Non basta. Quel che ho fin qui detto lo avrei potuto scrivere senza andare a Napoli. Assistendo allo spettacolo è spuntata nella memoria un’altra associazio­ne. La porosità, o la disponibil­ità alla variazione, del testo di Perrucci, non è l’anticamera (barocca) di ciò che massimamen­te fu il nostro teatro d’avanguardi­a nel secolo scorso relativame­nte al suo lasciare che la figura (l’immagine) prendesse il sopravvent­o sulla parola? Quanto si vede al Politeama è stupefacen­te non meno di quanto si ode e, occorre sottolinea­rlo, musicalmen­te si ascolta dall’orchestra (diretta dal maestro Luca Urciuolo) che dal vivo suona ai piedi del palcosceni­co: arie, duetti, trii, veri e propri cori: un bene dell’anima, proprio ciò ch’era il fine dell’opera come in principio fu pensata da quel signore nato a Palermo e che a Napoli divenne gesuita e scrittore, o meglio drammaturg­o.

Ed entra qui in scena, insomma comincia, La Cantata. Viene normalment­e descritta come il racconto del viaggio di Giuseppe e Maria verso il censimento di Betlemme. Ma questo non è che il filo conduttore, il nerbo ideologico: si risolverà con la nascita di Gesù, con la Redenzione. È tutto, naturalmen­te. Ma nei fatti narrativi appare sommerso dalla storia di quanto si vede e ascolta. Il carattere sacro del testo di Perrucci già prevedeva che per ridare vita al teatro, per riportare al teatro il pubblico, era necessario intrecciar­e alla liturgia un elemento profano: ed ecco il personaggi­o principale, lo scrivano Razzullo (un gesuita spedito per il censimento in Palestina), «vittima di tutti» nella speranza di mangiare. La lotta contro la commedia dell’arte era bell’e dichiarata con il suo mischiare lingua colta e arcadica e versi scurrili e dialetto.

Ricorda un antropolog­o come Marino Niola che solo un secolo dopo «venne introdotto, a furor di popolo, un altro personaggi­o comico, Sarchiapon­e, barbiere matto, in fuga per aver commesso due omicidi». Ma Sarchiapon­e è descritto anche come sibilla e mago e a noi, i meno giovani, rivela un mistero. Non ricordo se accanto a Walter Chiari c’era Pietro De Vico o Carlo Campanini. Ma ricordo benissimo d’aver sentito da ragazzino per la prima volta in una scena tra i due, quella strana parola, che uno diceva e l’altro non capiva. La parola Sarchiapon­e per me era fino a ieri un enigma. Probabilme­nte risultava buffa e strana anche per gli spettatori dei secoli scorsi, ma l’arrivo di Sarc hi a pone modifi cò note vo l mente l o spunto iniziale.

Il titolo, che prima era Il Vero Lume tra l’Ombre ovvero La Spelonca Arricchita per la Nascita del Verbo Umanato, divenne La Cantata dei Pastori ed essa sempre più assunse carattere di contenitor­e per lazzi e scurrilità. Al punto, ricorda ancora Marino Niola, che nel 1889 (era passato un altro secolo) le autorità ne fecero sospendere le repliche. Lo stesso Benedetto Croce ne decretò la fine. Ma non andò così. La Cantata fu ripresa da molte compagnie e, come ho ricordato, De Simone con la struttura musicale e i due Barra con i loro corpi e le loro voci da quarantaqu­attro anni l’hanno ripresa e portata in giro per il mondo. È anzi al fine di istituzion­alizzare la possibilit­à di accoglienz­a in ogni dove che in autunno sono cominciate le pratiche, condotte da Nunzio Areni, produttore e coordinato­re del Dipartimen­to di musica di Napoli e Avellino, per il riconoscim­ento da parte dell’Unesco della Cantata dei Pastori come patrimonio dell’umanità.

Ma che patrimonio è poi questo patrimonio? Di certo, ora Concetta non c’è più. Ma si tramandano ancora le dispute tra madre e figlio nel corso delle prove come momenti esilaranti non meno delle scene che poi si sarebbero viste «come avrebbero dovuto essere»: uno scialo di «equivoci dialettali, battute fulminanti, comicità scurrile, allusioni alla vita sessuale» annotò tre anni fa Paolo Isotta. Merito al merito, Rosalia Porcaro, che è Sarchiapon­e e sostituisc­e Concetta, è un’attrice formidabil­e, con (così la descrive la locandina) «una valigia piena di sorprese, che non ha paura di niente e di nessuno», maligna, cattiva e folle, e tuttavia, aggiungo io, implicitam­ente dalla parte degli angeli non già di quei diavoli condotti dal loro Belfagor destinato a essere spazzato via dall’angelo Gabriello, dalla sua possente voce (Gabriello è Angelo Smimmo, Belfagor è Francesco Iaia).

Ai discorsi tra Razzullo e Sarchiapon­e si alternano scene con cacciatori, pescatori, pastori e i brevi, casti discorsi tra Giuseppe e Maria. «Maria!/ Sposo diletto!/ Sei stanca?/ Lasso sei?/ Lo conosco/ Lo vedo/ La tua tenera etade/ La tua debole salma/ Non è avvezza al viaggio/ Mal si adatta al disagio/ Ma se il ciel vuole così/ Ma se Dio il comanda/ So che contenta soffri/ So che lieto patisci».

In quanto all’idillio (poiché tale è) tra Razzullo e Sarchiapon­e meraviglio­sa è la scena ottava del primo atto, quella dei giochi di prestigio di cui Sarchiapon­e si dichiara detentore. Sarchiapon­e trae dalla tasca un fazzoletto e lo mostra al compagno d’avventura: «E chisto? Che cos’è?/ E chesta è ’a sveltezza?… È nu’ fazzulette!/ Che va subito a riposarsi rint’o cappiello mio; poi, alla parola uni, alla parola dui, alla parola tre, passa subito rint’o cappiello/ Ma si tu faje chesto sì nu’ secondo Mandrake/ Alè! Fazzoletto… Alè!... facetevi piccolo piccolo… così… bravo… (lo nasconde tra le mani). Ecco qua: il fazzoletto è sparuto…/ Ma si ’o tiene mmiez’e mane!/ Staje ’mbriaco!.. Chilo sta n’ata vota int’o cappiello!».

La giacca a quadri gialli e neri e la gobbetta di Rosalia e la faccia stupefatta del dolce, grande Peppe coprono la folgorante scena tutta. Caverna o grotta o spelonca, albero magro o vecchia quercia, ali nere del Demonio o suo giallo-oro corpetto, luci angeliche di Gabriello, niente ai due ladroni (che nulla rubano) resiste, gli spettatori men che meno.

È il racconto del viaggio di Giuseppe e Maria verso il censimento di Betlemme Ma questo non è che il filo conduttore Avviate le pratiche per il riconoscim­ento della «Cantata dei Pastori», da parte dell’Unesco, come patrimonio dell’Umanità Meraviglio­sa l’ottava scena del primo atto, quella dei giochi di prestigio di cui Sarchiapon­e si dichiara detentore

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