Corriere della Sera - La Lettura
Volti d’Africa La resilienza delle donne e degli uomini senza passato
Negli scatti di Marco Gualazzini la spinta al futuro, nonostante i traumi
Non è sempre facile comprendere in che senso le fotografie scattate in Africa da Marco Gualazzini comunichino a chi le guarda l’idea di una «resilienza», ovvero di una reazione positiva a un trauma, all’opera di circostanze avverse e potenzialmente annientatrici. Eppure, il titolo che il fotografo ha scelto per il suo libro, Resilient, è adeguato non solo alla materia, ma anche allo sforzo psicologico che viene richiesto a noi che guardiamo questi reportage dall’inferno comodamente seduti a casa nostra, a distanza di sicurezza dalle guerre, dalle pulizie etniche, dagli stupri, dalla fame, dallo sradicamento, dall’umiliazione quotidiana. È come se Gualazzini ci chiedesse, davanti a ognuna delle sue immagini, un supplemento inconsueto di attenzione, qualcosa che vada oltre lo stupore, la compassione, l’indignazione. Tutte queste emozioni ci definiscono come esseri umani, e fanno sì che il «dolore degli altri», come lo chiamava Susan Sontag in un suo saggio memorabile, sia in grado di manifestarsi per quello che è: un’ingiustizia e un sopruso insopportabili.
Ma ognuna di queste fotografie a suo modo riapre la partita quando sembrava arrivato il momento di voltare la pagina. In Kenya, nel più grande campo profughi del mondo, una lunga fila di donne somale, fasciate di stoffe variopinte, attende la distribuzione dei viveri. Su una strada di Mogadiscio devastata dai bombardamenti, un giovane uomo scalzo, in tenuta da calcio, porta sulle spalle un gigantesco squalo martello, perfettamente in equilibrio. Nella Repubblica Democratica del Congo, i bambini di un orfanotrofio di Goma si lavano nel lago Kivu. A Diabaly, nel Mali centrale, alcuni passanti contemplano i resti di veicoli carbonizzati dopo che la città è stata liberata dall’occupazione degli integralisti islamici di Boko Haram. Cosa hanno in comune queste tessere di un mosaico sterminato? Dovendo azzardare una risposta del tutto soggettiva, direi che il fotografo ha catturato la più impalpabile delle materie: la caparbia, inestinguibile tensione della vita umana verso il futuro, che non è certamente una caratteristica esclusiva dell’Africa e degli africani, ma che in Africa possiede un’intensità quasi inconcepibile. La stragrande maggioranza delle persone incontrate da Gualazzini nei suoi lunghi e pericolosi viaggi è stata privata in modo violento e irreversibile della propria storia. Per questi esseri umani, giovani o vecchi che siano, la memoria è così sovraccarica di sciagure che per essere tollerabile va ridotta al minimo e tendenzialmente estinta. La memoria è il groviglio minaccioso di tutto ciò a cui si è scampato, e l’essere vivi è un andare avanti, un movimento di fuga.
È proprio quello che testimonia, a un certo punto del libroviaggio di Gualazzini, Maria Hassan, incontrata in Ciad pochi mesi fa. Questa giovane donna è stata rapita da una banda di jihadisti e costretta a un matrimonio forzato. È riuscita a scappare e oggi si definisce una «donna senza passato». Per tutti noi che viviamo sull’altra sponda del mondo, e ci rivestiamo della nostra storia come di una corazza, queste legioni di uomini e donne «senza passato» sono diventati l’oggetto di opinioni, controversie legali tra nazioni, dispute ideologiche. Hanno tirato fuori da noi, come sempre accade, il peggio e il meglio: stupidità, mancanza di compassione, ottusa indifferenza, ma anche atti di coraggio e disinteresse, visioni lungimiranti, un esercizio attivo dei doveri imposti dal senso di umanità. Ma quello che queste fotografie ci invitano a considerare è talmente importante da trascendere tutti i pareri, tutti i sentimenti, tutte le leggi. Troppo facilmente dimentichiamo che ciò che è senza passato, proprio in virtù di questa amputazione che è anche una fonte di energia, è ineluttabile. E alla luce dell’ineluttabile, tante differenze che ci dividono, mentre contempliamo stupiti l’avanzare di questa marea umana, diventano meno drammatiche, sono solo l’indice di un certo grado di ingentilimento o di durezza collettivi, di apertura o di paura suscitati dall’estraneo. Non è nemmeno detto che la bilancia penderà stabilmente (come pure sembra) dalla parte del rifiuto e della chiusura, ma ciò che emerge dal libro di Gualazzini è una forza che, non sappiamo quando e in che modo, finirà per prevalere. Come tutti i cittadini degli imperi vicini al tramonto che si sono avvicendati nel corso del tempo, noi dobbiamo imparare a vedere in tutto questo né uno specchio delle nostre colpe né una dichiarazione di guerra, ma la forma, ancora imprecisa ma non scongiurabile, di un destino. Questa umanità non ha più paura di nulla, ed è troppo tardi per restituire a un intero continente un passato distrutto.