Corriere della Sera - La Lettura
Gli eroi perdenti del thriller globale
Un maestro (Jeffery Deaver) e un altro maestro (Sandrone Dazieri) discutono del presente e del futuro di un genere intramontabile. Che trova oggi, anche grazie alla globalizzazione, una nuova vitalità. Perché è vero che le sue origini sono anglosassoni. Ma poi le singole culture nazionali hanno portato linfa e specificità. Fino a definire il...
Chiacchierano di come ammazzare qualcuno; scherzano su quante decine, forse centinaia, di morti hanno già all’attivo; si divertono a fare piani di azioni criminali; spiegano come liberarsi di un cadavere e anche come farla franca; amano far paura e ci riescono pure. Il mestiere di scrittore di thriller è anche questo: confrontarsi su storie, stili e tecniche. Jeffery Deaver, 68 anni, americano di Chicago, e Sandrone Dazieri, 54 anni, lombardo di Cremona, sono due tra le voci più autorevoli di un genere letterario che gode di ottima salute. Lo dimostra il fatto che il thriller è una presenza costante nelle classifiche dei titoli più venduti (e il 2018 non ha fatto eccezione). Nelle sue numerosi declinazioni (giallo, noir, psicologico, poliziesco, d’azione...) questo genere occupa interi reparti di librerie. Il segreto? La capacità di stare al passo con i tempi ma anche il saper incollare alla pagina lettori di età, estrazione sociale e Paesi differenti.
Come nasce un thriller? Come si costruisce una scena che faccia paura? Perché si decide di uccidere un personaggio? Cosa deve avere (e cosa non deve avere) un libro giallo? Come e quanto è cambiato il mestiere di scrittore di thriller? Per rispondere a queste e ad altre domande «la Lettura» ha fatto dialogare Sandrone Dazieri, ospite nella redazione del «Corriere» a Milano, con il collega — «e maestro» — Deaver, in collegamento via Skype dal North Carolina dove vive. I due — narrativamente parlando — si mettono a nudo, svelano come costruiscono trame mozzafiato e come evolvono i personaggi.
Come si scrive un thriller alla Deaver?
JEFFERY DEAVER — Ho lavorato moltissimo per raggiungere uno stile specifico. Credo tantissimo nella necessità di creare un mondo di protagonisti che siano vivi e pulsanti, figure che respirino. E questo vale tanto per i personaggi positivi che per quelli negativi. Lo schema è questo: ci sono personaggi che entrano in conflitto in un lasso di tempo molto breve e alla fine del romanzo tutti i conflitti che sono sorti vengono risolti in un modo soddisfacente per il lettore. Non necessariamente in un happy ending.
E, invece, alla Dazieri?
SANDRONE DAZIERI — Nel mio caso è stato più semplice perché prima di me sono arrivati autori come Jeffery Deaver. Da lui ho imparato molto sul rapporto con il lettore. Ricordo un dato personale: quando ho cominciato a scrivere ho avuto l’occasione di intervistare proprio Deaver e gli ho chiesto come si scrive un thriller. La regola che ho imparato è che chi legge deve sempre essere preso un po’ alla sprovvista: bisogna far sì che quello che lui crede non sia mai la realtà. Non a caso nei romanzi di Deaver è meglio non credere a niente, tutto può cambiare: il colpevole può essere diverso da quello che pensi. È stata una grande lezione. Come scrittore quello che cerco di fare è collegare la realtà del mio Paese al mondo che gli sta attorno. Ho cominciato a scrivere thriller quando ho capito che di qualunque cosa uno voglia parlare — che si tratti di crimine, di politica, di terrorismo o di altro ancora — deve sempre ragionare in termini globali. Tutto è connesso.
JEFFERY DEAVER — Sono d’accordo. Per scrivere un buon thriller ritengo che il fatto di avere un senso globale sia estremamente importante. Ed è quanto dico anche ai giovani scrittori quando si rivolgono a me per un consiglio. C’è un’altra cosa di cui sono convinto: che si debbano scrivere libri grandi, importanti. Vale a dire che se si decide, per esempio, di raccontare l’incidente di un treno o il crollo di un palazzo, questi devono essere
grandiosi, spettacolari. Ci devono essere un sacco di cadaveri. Quello che accade deve avere una sua grandeur.
Un thriller deve essere vero, verosimile o semplicemente credibile? Più in generale: la storia funziona meglio se sta aggrappata alla realtà? Oppure, al contrario, se ne deve allontanare presentando situazioni esagerate?
JEFFERY DEAVER — Credo che un thriller debba prendere il lettore alla gola dall’inizio e non mollarlo più. Quindi se si tira troppo la corda della credibilità arriva il momento in cui il lettore non ci crede più, non ci casca. C’è un’espressione in inglese che uso quando cerco di spiegare questo aspetto nelle lezioni di scrittura creativa: Give me a break. Che è come dire: ma ti prego! Oppure: fammi il piacere! I lettori hanno questa reazione davanti a una storia troppo verosimile e troppo reale. Per spiegarmi faccio un esempio: mettiamo che un personaggio deve fare una telefonata importante con il cellulare, una telefonata che risolverà il mistero o che farà intervenire la polizia, e in quel momento il telefono non funziona; questo in un mio libro non accade mai per una semplice coincidenza, come il fatto che sia finita la batteria o non ci sia campo; se l’apparecchio non funziona è perché il cattivo di turno in qualche modo, magari grazie a un elicottero, è riuscito a raggiungere la centralina dei telefoni e tagliarne i fili... Questo forse può non essere vero ma al lettore risulterà più verosimile di una coincidenza.
SANDRONE DAZIERI — Condivido quello che dice Deaver. Nella realtà le coincidenze ci sono. Esistono. Quando vieni licenziato dal capoufficio al mattino e la sera vieni mollato dalla fidanzata, questo non succede perché il capoufficio va a letto con la tua fidanzata. Accade per una coincidenza, perché hai avuto una giornata storta. Ma in un romanzo tutto acquista un peso diverso, i fatti vengono letti diversamente. La coincidenza è considerata un trucco di bassa lega, una scorciatoia di comodo. Al contrario tutti i passaggi vanno costruiti e resi espliciti e credibili all’interno dell’universo del romanzo. L’altro aspetto fondamentale è la costruzione dei personaggi. Questi devono agire come agirebbero nella realtà: se tu vedi un omicidio per strada di solito chiami la polizia, non ti metti a investigare da solo. Se però decidi di farlo allora devi avere un forte motivo, qualcosa che anche il lettore possa riconoscere come tale. Creare protagonisti credibili con motivazioni forti e condivisibili da chi legge aiuta a reggere la costruzione narrativa.
Una domanda sul concetto di violenza. Avete entrambi una lunga carriera alle spalle — Deaver ha esordito nel 1988; Dazieri, un decennio dopo. Quanta violenza occorre mettere in un thriller e, soprattutto, la «quantità» è cambiata nel corso del tempo? Negli ultimi vent’anni abbiamo attraversato periodi con picchi di violenza: l’attentato alle Torri Gemelle, gli attacchi di Al Qaeda e dell’Isis. Come è cambiata la percezione della paura e come un autore di thriller dosa la violenza? Nei momenti in cui la paura è lontana si permette più violenza nei libri mentre quando la soglia sociale si alza fa un passo indietro?
JEFFERY DEAVER — Tutto ciò che faccio va in una sola direzione: proporre al lettore un’esperienza emotiva intensa. La violenza ne fa parte. Mi pongo di continuo la domanda se la violenza sia troppa e quanta sia giusto inserirne in un romanzo. Voglio che il mio lettore sia emozionato e senta qualche brivido: in inglese questa parola ( thrill) ha la stessa radice del genere letterario. Allo stesso tempo non voglio che sia respinto da ciò che trova nella pagina: è questo il motivo per cui nei miei romanzi non ci sono mai scene di violenza su bambini o su animali. Può capitare che un personaggio minacci una famiglia, ma non si vedranno mai direttamente animali o bambini feriti o uccisi. Uso la tecnica cinematografica del fuori-camera — tengo la scena fuori dall’occhio ideale della telecamera, per cui il personaggio negativo si
Dazieri: «I protagonisti sono perdenti. Nascono perdenti e lo rimangono»
Deaver: «Ma i perdenti sono comunque eroi»
Dazieri: «Sì, concordo»