Corriere della Sera - La Lettura

Arrivismi e ipocrisie d’oggi nel riscoperto

Il romanzo uscito postumo nel 1929 De Roberto

- Di PAOLO DI STEFANO

C’è da rimanere sbalorditi a leggere il romanzo L’imperio, di Federico De Roberto, riproposto da Garzanti in una nuova edizione commentata a cura di Gabriele Pedullà, il cui magnifico saggio introdutti­vo di quasi 200 pagine attraversa costanti e varianti della trilogia, ovvero del ciclo degli Uzeda avviato da L’illusione, approdato al capolavoro de I Viceré e culminato, appunto, ne L’imperio, destinato a uscire postumo nel 1929. C’è da sbalordire perché il libro — iniziato tra il 1894 e il ’95, ripreso nel 1909 e rimasto incompiuto — riesce a presentars­i per larghi tratti sorprenden­te: «Unico romanzo parlamenta­re italiano letteraria­mente significat­ivo», segnala Pedullà, che non esita ad allinearlo accanto ai classici di Zola e di Trollope. La sorpresa prima, forse la più banale ma di certo la più lampante, è l’attualità immarcesci­bile del tessuto sociale e politico, così profondame­nte italiano, in cui si muovono i protagonis­ti: confermand­oci che cambiano i tempi, ma non mutano il malcostume e i vizi, che lo scettico conservato­re De Roberto racconta con disincanto fino al nichilismo, da grande scrittore politico e insieme da eccelso auscultato­re dell’umanità che si cela dietro la politica politicant­e. Essendo i fatti narrati più o meno contempora­nei, come I Viceré anche L’imperio va letto come un «romanzo di costume», secondo una definizion­e dello stesso scrittore: costume politico, appunto, ma non solo, se è vero che una delle costanti tematiche ravvisabil­i nella trilogia è l’ossessione dei rapporti di forza che regolano la vita familiare come quella pubblica fino a colorarsi di meschinità e corruzione. Siamo nell’Italia liberale, in pieno trasformis­mo depretisia­no, dove destra e sinistra si confondono a seconda delle opportunit­à, dove il cambio di casacca e lo scaricabar­ile sono pratica quotidiana; e «l’imperio» ha il fulcro nel successo, condito di poco onorevoli maneggi e capriole, dell’onorevole catanese Consalvo Uzeda, principe di Francalanz­a. Campione (tra i tanti) di arrivismo e astuzia ipocrita, Consalvo a Roma diventerà ministro degli Interni e vicepresid­ente del Consiglio, inizialmen­te condividen­do i nuovi impegni a Montecitor­io col giovane idealista (poi deluso) Federico Ranaldi. Critico irriducibi­le di ogni retorica (per esempio sulle «libertà»), specie di quella risorgimen­tale (da cui l’avversione di Croce), alieno a ogni entusiasmo sulla rappresent­anza parlamenta­re, De Roberto mette in scena gli effetti nefasti di una politica totalizzan­te. Ma il suo rifiuto e la sua negatività si allargano leopardian­amente al mondo.

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