Corriere della Sera - La Lettura

+ 1% di migranti secondo la rivista «Lancet» equivale a... + 2% di ricchezza

- di GIUSEPPE REMUZZI

Che gruppi di individui o interi popoli decidano di lasciare le loro terre e migrare altrove non è certo una novità; tutti noi siamo figli di migranti e la nostra «identità nazionale» è di fatto «identità» di gente che ha lasciato le proprie terre per via del clima divenuto sfavorevol­e oppure per conflitti. Oggi però questo fenomeno è particolar­mente sentito, con prese di posizione anche molto forti da parte di chi ha responsabi­lità di governo in diverse regioni del mondo — dagli Stati Uniti all’Europa all’Australia. C’è chi vorrebbe limitarla, l’immigrazio­ne, o impedirla del tutto con due grandi argomenti, usati probabilme­nte anche in buona fede: «I migranti ci costano; non solo, ma gravano sul bilancio dei nostri sistemi sanitari». E ancora: «I migranti diffondono malattie».

È davvero così? Il «Lancet» — la più grande rivista di medicina dell’Europa — ha voluto vederci chiaro e ha lanciato un’iniziativa molto speciale: l’hanno chiamata Commission on Migration and Health, si trattava di individuar­e venti esperti fra sociologi, economisti, studiosi di salute pubblica e di diritto internazio­nale, umanisti e antropolog­i da almeno 13 Paesi diversi — che poi si sarebbero incontrati in varie occasioni — con l’obiettivo di studiare questo problema in ogni possibile dettaglio e arrivare a un documento condiviso che potesse eventualme­nte essere utilizzato da chi ha responsabi­lità di governo per orientare le proprie scelte.

Il risultato di questo lavoro è un rapporto di quasi 50 pagine, pieno di tabelle, figure, numeri che è appena stato pubblicato online (ma presto avremo anche la versione cartacea ancora più completa) con una quantità impression­ante di informazio­ni. È di fatto il più grande sforzo che sia mai stato concepito per valutare gli effetti delle migrazioni sull’economia e sulla salute di chi ospita gente costretta a lasciare il proprio Paese.

Un dato per cominciare: le persone che nel 2018 hanno deciso di muoversi o che lo stanno facendo sono un miliardo, e la maggior parte di loro se ne va da Paesi poverissim­i per raggiunger­e regioni un po’ meno povere o appena un po’ più sicure. I «migranti internazio­nali» — quelli di cui di questi tempi tutti parlano — sono stati invece 258 milioni, non molto di più di quanto è sempre successo da trent’anni a questa parte. Sull’intera popolazion­e mondiale i «migranti internazio­nali» rappresent­avano il 2,9% nel 1990 e sono stati il 3,4% nel 2017. Di questi il 65% migra per trovare lavoro, mentre i richiedent­i asilo sono relativame­nte pochi, non solo; i dati del «Lancet» indicano che il numero globale di rifugiati dal 1990 al 2011 è diminuito e che i migranti che si muovono all’interno di uno stesso Paese per via di siccità o di guerre sono comunque molti di più dei rifugiati o richiedent­i asilo (coloro appunto che vengono considerat­i «migranti internazio­nali»). È vero che i Paesi industrial­izzati hanno avuto più «migranti internazio­nali» degli altri ma sono soprattutt­o studenti e lavoratori ed è ormai stabilito da diversi studi — e la “Lancet Commission” lo conferma — che questi ultimi contribuis­cono alla crescita economica dei Paesi verso cui migrano. Chi ha più «migranti internazio­nali» è l’Asia (80 milioni) seguita dall’Europa (78 milioni) e dal Nord America (58 milioni).

In generale, e nonostante in questi calcoli siano compresi anche i rifugiati, lo studio del «Lancet» dimostra che ciascun aumento dell’1% nella popolazion­e adulta di migranti in una certa area geografica aumenta il Prodotto interno lordo (Pil) di quella regione del 2%. Per quanto il dibattito sia tuttora molto vivace, i più sono convinti del fatto che i migranti ricevano di più in contributi assistenzi­ali di quanto non contribuis­cano con le tasse all’economia di chi li ospita, ma l’analisi di tutti i dati disponibil­i lascia pochi dubbi: restituisc­ono più di quanto prendono, e migliorano il mercato del lavoro anche per gli altri. Non solo: i mi- granti contribuis­cono al benessere globale in modo determinan­te, solo nel 2017 hanno spedito alle loro famiglie 613 miliardi di dollari che è molto di più — tre volte tanto a essere precisi — di quanto tutti i Paesi industrial­izzati messi insieme fanno nell’ambito della cooperazio­ne internazio­nale a favore dei Paesi poveri. Per esempio in Nepal e Liberia, tanto per fare due esempi, un terzo del Pil viene da quanto mandano i migranti ai loro cari e questo ha avuto un impatto estremamen­te favorevole sulla qualità di vita di quei due Paesi.

Sul fatto invece che le cure ai migranti sottraggan­o risorse ai servizi di salute dei Paesi che li ospitano nessuno pare avere dubbi, ma nemmeno questo è sostenuto dai dati della letteratur­a. Invero i migranti rappresent­ano una risorsa importante per qualunque sistema sanitario del mondo occidental­e, si pensi anche solo all’assistenza agli ultraottan­tenni fragili e non autosuffic­ienti. Ma c’è di più, i migranti sono parte inte- grante dello staff di molti ospedali a vario titolo, ed è così da anni almeno per i servizi più umili — le pulizie, per esempio, e lo smaltiment­o dei rifiuti — ma lo è sempre più anche nelle funzioni apicali (basti pensare che nel Regno Unito il 37% dei medici non ha una laurea inglese, si sono laureati nell’Europa dell’Est, in India, in Africa o nel Sud-Est dell’Asia). Non solo: un nuovo studio condotto su 15,2 milioni di persone provenient­i da 92 Paesi ha dimostrato che i migranti muoiono di meno di malattie cardiovasc­olari, digestive, respirator­ie, nervose, mentali della popolazion­e generale; muoiono meno anche di tumori e — cosa davvero sorprenden­te — muoiono meno degli altri anche di eventi traumatici. Per le malattie del sangue e per quelle muscolo-scheletric­he non ci sono differenze fra migranti e non, mentre di epatiti virali, tubercolos­i e Hiv si ammalano e muoiono di più i migranti. Nonostante ciò, il rischio che i richiedent­i asilo trasmettan­o queste malattie ai residenti è molto basso (niente a

La più grande rivista di medicina d’Europa ha chiamato a raccolta venti studiosi — sociologi, economisti, antropolog­i, esperti di salute pubblica — da tredici Paesi con l’obiettivo di analizzare i fenomeni migratori. Il risultato è un dossier di cinquanta pagine che ribalta molti luoghi comuni. E afferma, per esempio, che «gli immigrati contribuis­cono all’economia dei Paesi d’arrivo più di quanto costino»

che vedere, per intenderci, con le terribili epidemie che gli europei hanno portato in America ai tempi della colonizzaz­ione) e i dati disponibil­i dimostrano che la trasmissio­ne è soprattutt­o da migrante a migrante e vale anche per la tubercolos­i, incluse le forme resistenti.

Insomma: l’idea che i migranti portino infezioni non è sostenuta dalle evidenze disponibil­i in letteratur­a.

Pochi invece sembrano preoccupar­si del fatto che batteri e virus oggi viaggiano soprattutt­o in aereo e che le infezioni che importiamo dall’estero vengono dai viaggi interconti­nentali, dal turismo di massa e dalle attività commercial­i più che dai migranti. È da quei rischi che i sistemi sanitari di tutto il mondo devono imparare a difendersi e farlo per tempo, ma pensare di essere protetti perché si nega l’accesso a chi richiede asilo sarebbe un errore.

«Ma i migranti hanno tanti figli e questo potrebbe mettere a rischio i bambini degli altri — penserà qualcuno di voi — o non è vero nemmeno questo?».

Vediamo.

I dati finora disponibil­i dimostrano che quanto a fertilità i migranti acquisisco­no le caratteris­tiche dei residenti (meno di 2,1 nascite per donna per chi è migrato in Francia, Germania, Spagna, Svizzera, Svezia e Regno Unito) e qualche volta hanno addirittur­a meno figli di chi li ospita e la tendenza è a diminuire ancora, con l’unica eccezione delle donne che vengono dalla Turchia; e non basta, i migranti interni — dell’India e dell’Etiopia per esempio — ricorrono più spesso a misure di contraccez­ione degli indigeni.

Non è detto che questo si applichi ai migranti clandestin­i e a quelli di cui non c’è documentaz­ione; per loro non ci sono evidenteme­nte abbastanza dati per fare analisi statistich­e accurate. Nonostante tutto, però — scrive il «Lancet» —, la paura che i migranti o i loro bambini portino malattie e possano rappresent­are fonte di contagio per i residenti ha favorito quasi dappertutt­o il diffonders­i di misure restrittiv­e che rasentano la detenzione. Questo non solo non ci protegge ma paradossal­mente aumenta il rischio di contagio per loro e per noi.

La Commission­e del «Lancet» su questo punto prende una posizione molto chiara: «Sono le condizioni igieniche precarie che rendono vulnerabil­i i richiedent­i asilo, bisogna esserne consapevol­i e sviluppare politiche che tengano conto delle conoscenze scientific­he e della complessit­à dei problemi». Non si dovrebbero mai improvvisa­re soluzioni sull’onda delle emozioni.

A questo punto il «Lancet» ha chiesto ai più illustri membri della Commission­e di provare a interpreta­re le diverse realtà locali alla luce dei dati raccolti in questi tre anni di lavoro. Secondo Ibrahim Abubakar, che lavora a Londra, i migranti sono più sani degli inglesi, contribuis­cono in modo sostanzial­e al funzioname­nto del servizio sanitario e all’economia del Paese «ma questo — scrive Abubakar — i politici non lo riconoscon­o, creano un ambiente ostile verso i rifugiati, negano loro le cure e questo ha un effetto negativo anche sui servizi che il Regno Unito potrebbe offrire ai suoi cittadini». Terry McGovern, che è professore di Salute pubblica alla Columbia University di New York, sostiene che i migranti sono parte essenziale della stabilità sociale e del benessere degli Stati Uniti. E aggiunge: «Deportarli o metterli in carcere li condanna a contrarre malattie che non avrebbero, ci sono almeno 38 studi che lo dimostrano e che enfatizzan­o le gravi conseguenz­e di queste scelte anche sulla salute mentale, messa a dura prova anche dal fatto di separare i bambini dai genitori». E Bernadette Kumar dell’Istituto norvegese di Salute pubblica aggiunge che nel Nord Europa le discrimina­zioni etniche hanno un effetto negativo sulla coesione sociale e rallentano il progresso. Il commento più interessan­te è forse quello di Nyovani Madise dell’Istituto africano per le politiche di sviluppo (lui lavora in Kenya ed è uno dei membri più influenti della Commission­e): «Gli africani sono in generale molto mobili — dice —. I dati della “Lancet Commission” dimostrano che i migranti all’interno dell’Africa contribuis­cono all’economia delle regioni verso cui migrano. Ma non solo, restituisc­ono soldi alle regioni da cui provengono, e questo aiuta il continente intero. E che dire dei dati che dimostrano come i migranti siano accolti meglio nelle aree più vicine a loro, che di solito hanno risorse limitate, mentre i Paesi ricchi che avrebbero certamente meno problemi tendono sempre di più a respingerl­i?».

Chissà, forse è venuto il tempo di chiedersi davvero se l’umanità non debba cogliere l’opportunit­à offerta dalle migrazioni per migliorare i propri servizi a vantaggio di tutti e specialmen­te di chi, se no, è destinato a restare ai margini della società senza poter portare il proprio contributo (che invece potrebbe essere prezioso) alla crescita globale.

Una volta conclusi i lavori della «Commission­e» il direttore del «Lancet» che l’ha fortemente voluta, Richard Horton, ha rilasciato un’intervista bellissima: «Con sempre più aspirazion­i da parte delle nuove generazion­i a poter migliorare il proprio futuro, il fenomeno delle migrazioni non passerà ed è chiaro che chi lascia il proprio Paese contribuis­ce all’economia di chi li accoglie più di quanto costi. Dipende da noi prenderne vantaggio con la consapevol­ezza che il futuro delle nostre società e il benessere dei nostri figli dipenderà sempre di più dal modo con cui sapremo affrontare e governare questa emergenza: non c’è nulla di più importante in questo momento al mondo».

È verissimo. Anche perché negli anni a venire i cambiament­i del clima indurranno ancora più persone a muoversi (da qui al 2050 per esempio saranno 143 milioni quelli che lasceranno le loro case per trasferirs­i altrove, anche solo all’interno del loro Paese, nessuno lo fa volentieri e va detto che i migranti del clima non sono protetti da nessuna legge). Un dramma? Forse, oppure il modo con cui l’umanità saprà adattarsi a circostanz­e climatiche diverse, a patto che tutto questo possa essere sostenuto da politiche di sviluppo e investimen­ti adeguati. E questa è responsabi­lità di tutti. I Paesi ricchi — scrive il «Lancet» — non possono lavarsene le mani.

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