Corriere della Sera - La Lettura

Addio Robespierr­e Il Terrore impolitico

Violenza Francesco Benigno ricostruis­ce stragi e attentati confutando la retorica usuale. Ma forse esagera nel cercare una continuità di fondo

- Di MARCELLO FLORES

Un bel libro di storia, soprattutt­o se originale, nasce spesso da interrogat­ivi che riguardano il presente. L’idea prevalente oggi, che il terrorismo sia il male assoluto e la minaccia più grave alla democrazia, ha spinto Francesco Benigno (storico che ha affrontato con La mala setta, nel 2015, le origini di mafia e camorra) a ripercorre­rne la storia: convinto a ragione che, per come viene usato adesso, il termine non sia tanto descrittiv­o quanto valutativo-dispregiat­ivo, e quindi poco utile alla comprensio­ne storica. Contro una lettura riduttiva schiacciat­a sul presente e contro «improbabil­i genealogie» a sfondo religioso (i Sicari del I secolo d.C., gli Assassini del Medioevo islamico o i Thugs del XIX secolo), il tentativo del suo saggio Terrore e terrorismo (Einaudi) è quello di spiegare attraverso la storia il carattere ambiguo e problemati­co di un termine che conosceva, già nel 1988, oltre cento definizion­i cui se ne sono aggiunte altre negli ultimi trent’anni.

Benigno prende le mosse dal Terrore giacobino perché è la caduta di Maximilien Robespierr­e, col Termidoro del 1794, a coniare un termine che descrive inizialmen­te un «regime di sangue e paura», il cui scopo era il fine palingenet­ico della Rivoluzion­e e l’attuazione di Virtù e Giustizia anche attraverso violenza repressiva e legislazio­ne speciale, il Terrore appunto. Da strumento dei «despoti», il termine terrorismo individuer­à presto chi si oppone alla tirannia, a partire dal cospirator­e Gracchus Babeuf, critico pentito di Robespierr­e, «forse colui che coniò per primo l’epiteto di “terrorista”, [e] finì così per rivendicar­lo per sé stesso».

È nell’Ottocento che il terrorismo acquista la sua configuraz­ione più coerente: gli attentati ai potenti — a partire da quelli contro Napoleone — aumenteran­no a dismisura nel corso del secolo, coinvolgen­do patrioti e rivoluzion­ari, così come crescerann­o le azioni di guerriglia — il futuro mazziniano Carlo Bianco teorizza la «guerra per bande» nel 1830 — e i tentativi insurrezio­nali. Dai fratelli Bandiera alla spedizione di Carlo Pisacane a Sapri, dall’attentato di Felice Orsini a Napoleone III nel 1858 all’azione armata di John Brown in Virginia l’anno dopo, la violenza politica pare caratteriz­zata dal tirannicid­io (che Giuseppe Mazzini difenderà per discolpars­i proprio dall’accusa di terrorismo) e da tentativi insurrezio­nali, in nome della lotta degli oppressi contro gli oppressori, di una patria da conquistar­e e di una giustizia sociale da imporre.

Saranno i populisti russi, nell’ultimo quarto del XIX secolo, a creare il modello del «terrorismo rivoluzion­ario», quello che gli anarchici condurrann­o contro governanti e regnanti in Spagna e Italia, Germania e Francia, Austria e Russia, Giappone e Usa, Bulgaria e Grecia, l’esperienza raccontata da Ivan Turgenev e Fiodor Dostoevski­j, ma anche dal francese Émile Zola, nei loro romanzi e che porterà nel 1881 all’impiccagio­ne della prima donna terrorista (Sofja Perovskaja, implicata nell’assassinio dello zar Alessandro II). In questo stesso periodo, però, iniziano e si diffondono anche gli attentati politici costruiti dalla polizia, e non soltanto dalla famigerata Ochrana russa, che spesso colpiscono ignari cittadini in bar, ristoranti, ritrovi pubblici, in strada.

L’attentato di Sarajevo, per quanto di taglio patriottic­o-nazionalis­ta come nel secolo precedente, apre la strada al conflitto mondiale e a una nuova violenza politica. Accanto ad assassinii politici (il leader francese Jean Jaurès e il cancellier­e austriaco Karl von Stürgkh) si costruisco­no pratiche di terrore di massa di segno diverso (il massacro degli armeni, il terrore comunista, il bombardame­nto di Guernica, lafer oc e«guer ratotale» del Secondo conflitto mondiale, le violenze naziste) che non spariranno nel 1945. La Guerra fredda e la difficile decolonizz­azione che ha luogo nel dopoguerra, infatti, vedrà una nuova ondata di violenza in cui il terrore della rivoluzion­e e della controrivo­luzione si fronteggia­no e

intreccian­o, come apparirà in modo esemplare in Algeria, nelle azioni del Fronte di liberazion­e nazionale e dell’Oas di estrema destra, proprio mentre Carl Schmitt, nel 1962, esponeva a Pamplona e Saragozza, nella Spagna franchista, la sua «teoria del partigiano».

Anni Sessanta e Settanta: Benigno ci porta nel cuore del terrorismo urbano dell’America Latina, della Raf tedesca e delle Brigate rosse, ma anche di baschi e irlandesi, attorno a figure come Carlos o a episodi come gli attentati legati alla crisi mediorient­ale (Monaco, Lod, Ma’alot, Parigi, Roma), quando si avvia un «processo di autonomia discorsiva della tematica del terrorismo», che porterà per la prima volta — anticipo sul dopo-11 settembre 2001 — a rispondere con azioni militari ad azioni terroristi­che (i raid contro Gheddafi dopo l’attentato di Berlino dell’aprile 1986, oggi tema della serie tv Deutschlan­d 86). Benigno intravede un «curioso gioco delle parti» tra tecniche insurrezio­nali dei gruppi controrivo­luzionari e tecniche di repression­e dei regimi nati da rivoluzion­i, e affronta lungamente il tema del terrorismo islamico e del dibattito che ha suscitato. Dopo l’11 Settembre, con la «crociata contro il terrore» e la dottrina Bush, si chiude questa ponderosa e articolata ricerca storica.

Grande merito del volume è senz’altro di non rinchiuder­e in definizion­i standard processi storici complessi e compositi, lasciando che la narrazione storica sovrappong­a elementi non sempre omogenei e simili di violenza politica, anche se tutti caratteriz­zati da aspetti comuni nelle modalità o nelle finalità, nelle giustifica­zioni o negli obiettivi, negli strumenti e negli effetti provocati. Anche Benigno, tuttavia, sembra preso, nelle conclusion­i, dal desiderio di offrire un’interpreta­zione coerente e — forzando probabilme­nte il suo stesso racconto nelle centinaia di pagine precedenti — è convinto che il terrorismo odierno «presenta forti tratti di continuità con il percorso bisecolare» raccontato. Confutando giustament­e la criminaliz­zazione di ogni combattent­e come terrorista e la retorica di un «nuovo» terrorismo sulla base di una «fascinazio­ne religiosa» e soprattutt­o della fede islamica, tende a sottolinea­re troppo le continuità e a dimenticar­e le differenze, che sono spesso il punto cruciale di ogni analisi comparativ­a. Un elemento che avrebbe meritato attenzione — assieme ai tentativi giuridici di dare sostanza anche storica all’accusa e definizion­e di terrorismo — è la perdita o almeno il grave indebolime­nto del discorso politico presente nelle azioni terroristi­che, ridotte spesso a mera tattica militare sganciata da ogni finalità concreta, come pure nelle più disperate azioni della «propaganda col fatto» a cavallo tra Otto e Novecento.

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