Corriere della Sera - La Lettura
Sull’isola dei morti. Per parlare
Memoria/1 Il colloquio con i trapassati è il motivo unificante della nuova opera in versi dell’olandese Cees Nooteboom, che si muove nella natura di una terra emersa dal Mare del Nord
Poeta, narratore, drammaturgo, cronista di viaggio, elzevirista, Cees Nooteboom è un poligrafo che ha nell’anima anzitutto la poesia. Con questo non s’intende però solo l’arte del verso propriamente detta, che per altro lo scrittore olandese ha praticato con continuità fin dai suoi esordi.
Piuttosto, la poesia qualifica un po’ tutta la sua opera, che infatti molto spesso si colloca ambiguamente a cavallo tra generi diversi. Di fatto, è l’impostazione stessa dei suoi tanti e disparati lavori a risultare poetica: la presenza di un certo tono rivolto alle cose prime e ultime, lo spazio concesso all’immaginazione, la capacità evocativa, l’attesa continua di un evento rivelatore, la tendenza del linguaggio a riflettere su sé stesso anziché a risolversi nella narrazione.
Non è un caso, allora, che Nooteboom si possa considerare un autentico maestro nell’arte della variazione. Sa trovare le situazioni di poesia più favorevoli, infatti, ma è anche capace di metterle a frutto, di trarne vantaggio, appunto variandole e facendole continuamente reagire su sé stesse, come un delfino che entri ed esca dalla stessa acqua. Basti pensare anche solo a due suoi libri recenti par- ticolarmente apprezzati, come Lettere a Poseidon e Tumbas. Tombe di poeti e pensatori (sono usciti entrambi da Iperborea nel 2013 e nel 2015). Questa felicità d’impostazione è anzi tale da nascondere o comunque da compensare, irradiandoli della propria luce e della propria intensità, anche qualche pagina meno fortunata o passaggio più debole. La poesia, insomma, sta anche, e talvolta soprattutto, nella concezione dell’opera, o se si preferisce, ammesso che il termine sia davvero adeguato, nella sua struttura.
Particolarmente feconda è anche l’ideazione del suo ultimo libro di versi, L’oc
chio del monaco, in uscita da Einaudi nella traduzione di Fulvio Ferrari. Si tratta di 33 componimenti (come nelle cantiche dantesche; la coincidenza non è forse ca- suale) scritti e ambientati nella solitudine di una piccola isola frisona del Mare del Nord. Schiermonnikoog: l’isola dei monaci grigi. «Un io che è un lui, un lui che sono io, immagini di un’isola che diventa poi un’altra isola (un’insula archetipica) e torna quindi a essere se stessa», scrive il poeta nella sua nota. Questo dice già della disposizione contemplativa o meditativa consueta, che in questo caso però scivola continuamente nel sogno, nella visione, al punto che sonno e veglia non si distinguono più. Se si considera poi che le liriche seguono lo stesso schema metrico, tre quartine non rimate seguite da un verso isolato (le si potrebbe ascrivere alla tipologia del mottetto, alla maniera dei moderni, ovviamente: «Quando comincia un mottetto,/ una poesia, una luce che appare senza fonte?», si chiede il poeta), questo libro si dovrebbe senz’altro leggere come un autentico poemetto.
L’isola, dunque, e così il vento, il mare in tempesta, i frangenti, le dune di sabbia, i cespugli di rovi, le rocce, il faro, la casa di un pescatore. L’ambientazione può forse ricordare Nord, il libro degli dei e degli eroi di Séamus Heaney, solo che qui, rispetto alla fortezza e alla possanza del poeta irlandese, con tutt’altra dispo- sizione e consistenza. «Cammino come un antenato sulla terra. Mi invento chi erano./ Non so niente, tutto quel che dico è immaginazione», scrive Nooteboom. O ancora: «Chi vedo non ha sostanza, sacche d’uova sulla spiaggia,/ corazze verniciate di animali estinti, razze stellate,/ conchiglie, e tra loro gli spiriti,// i morti della mia compagnia, invisibili/ accanto a me». In questo libro della memoria, infatti, molto sta dalla parte della dimenticanza, della trasparenza, del vuoto, delle forme evanescenti. Il poeta-monaco guarda, o meglio vede allontanarsi nel vento i luoghi e le figure, come «una catena sonnolenta di nomi e oblio// in cui si svanisce».
Il motivo unificante del libro è dunque il colloquio con i morti, effettivo o più spesso sfiorato, o semmai avviato proprio dalla mancanza, dal silenzio, dall’imprendibilità («Per la memoria/ dei morti non c’è codice,// lì non abita nessuno»). Si tratta allora di un motivo per eccellenza poetico, radicato nel cuore più antico della poesia, e che costituisce uno degli argomenti prediletti di questo autore, se non addirittura il suo fondamentale, al punto da assumere un carattere praticamente ossessivo: «Perché non ci lasciano in pace i morti? Spargono i loro nomi sulla strada/ su cui dobbiamo camminare, insinuano i versi/ delle loro poesie nell’ultimo sonno prima del mattino/ / e poi di nuovo se ne vanno».
Sono allora le apparizioni del padre, del «primo amore», dell’«amico di un tempo», del guardiano del faro, ma poi, soprattutto, del poeta stesso, che si vede e parla in terza persona, anche lui già simile a una larva tra larve. «E laggiù vedo il mio doppio camminare»... E proprio nella giuntura e, in fondo, nella coincidenza tra il piano della cosiddetta realtà — l’uomo che si aggira senza pace per l’isola — e il piano quasi onirico del sonno, questa poesia trova il suo vero punto di realizzazione. Né solo veglia né solo sogno, l’occhio del monaco è piuttosto quello di un sonnambulo che cammina su una terra tanto sua quanto mostra, perché in ogni senso assomiglia davvero alla vita.
Ambientazione In testi composti da tre quartine e un verso singolo troviamo vento, tempeste, dune, rovi, rocce, il faro, la casa del pescatore...