Corriere della Sera - La Lettura
Il fuoco vero della protesta Gli altri dodici Jan Palach
Il giovane ceco che s’immolò a Praga 50 anni fa non fu il primo a darsi fuoco per protesta contro i regimi del blocco sovietico. Vennero prima di lui il polacco Siwiec e l’ucraino Makuch. Quindi l’esempio fu seguito da altre dieci persone nei mesi e negli
Il 16 gennaio 1969 «la fiamma violenta e atroce», per dirla con Francesco Guccini, bruciava il corpo dello studente Jan Palach, il quale aveva deciso di compiere quel gesto estremo per protestare contro il lento ma sicuro soffocamento, da parte dell’Urss e dei suoi alleati, delle istanze di libertà e democrazia che si erano sviluppate nell’anno precedente in Cecoslovacchia e che erano state interrotte dall’intervento armato del 21 agosto, dieci giorni dopo il suo ventesimo compleanno; ma soprattutto contro la scarsa resistenza che tale soffocamento incontrava. La morte del giovane, avvenuta il 19 gennaio, ebbe enorme risonanza internazionale: in Italia la costernazione e la solidarietà furono quasi unanimi, come lo era stata la condanna dell’intervento armato.
A lui furono poi dedicate varie canzoni. Oltre a Primavera di Praga di Guccini e a Mourir dans tes bras dell’italo-belga Adamo (vedi intervista nella pagina seguente), anche Jan Palach della Compagnia dell’Anello e la più recente Le fate di Praga di Sköll, queste ultime due dichiaratamente di destra. Anche l’editoria manifestò interesse, con decine e decine di pubblicazioni di buon livello, dalle Edizioni del Borghese a Samonà e Savelli passando per Sugarco e gli Editori Riuniti: in tal modo la contrapposizione frontale sulla rivoluzione ungherese del 1956 apparve superata e si potrebbe addirittura azzardare il termine, così raro in Italia, di «memoria condivisa» per tutto il complesso di eventi.
Il grande slavista Angelo Maria Ripellino aveva a quel tempo rilevato che Tomáš Masaryk, fondatore della Cecoslovacchia, «aveva svolto a Vienna nel 1881 la sua tesi di laurea sul “suicidio come fenomeno di massa della civiltà moderna” (…): con quel lavoro (…) si proponeva di render chiaro che “la vita senza fede perde forza e certezza”». Palach era certamente un seguace di Masaryk, come la sua famiglia. A 15 anni aveva appreso, restandone assai colpito, del suicidio di Thích Quang Dúc, un monaco buddista vietnamita che si era dato fuoco per protestare contro le persecuzioni del governo di Saigon. È probabile che avesse saputo anche del gesto analogo compiuto a Washington due anni dopo, nel 1965, dal quacchero Norman Morrison, per protestare contro le uccisioni di bambini durante la guerra in Vietnam.
Già prima però, l’8 settembre 1968, a 18 giorni dall’in- vasione della Cecoslovacchia compiuta anche da truppe del suo Paese, il cittadino polacco Ryszard Siwiec, veterano della Resistenza antinazista e antisovietica, si dette fuoco nello stadio di Varsavia dove si svolgeva la «festa del raccolto», alla presenza delle massime autorità. Morì quattro giorni dopo, lasciando moglie e cinque figli: sebbene molte persone nello stadio avessero visto che cosa aveva fatto, la polizia riuscì a evitare che la notizia venisse diffusa. Solo sei mesi dopo la redazione polacca di Radio Free Europe (situata in Germania) ruppe il silenzio e rivelò che Palach non era stato la «torcia umana numero 1», almeno non sul piano internazionale.
Meno di due mesi dopo, il 5 novembre, toccò all’ucraino Vasyl Makuch, anch’egli veterano della Resistenza antinazista e antisovietica, immolarsi per protesta contro l’oppressione del suo Paese e per l’invasione della Cecoslovacchia: il luogo prescelto per il sacrificio era non lontano dalla piazza Maidan, lungo il viale Kreshchatik. Makuch morì il giorno dopo e in questo caso, nonostante la vigilanza del Kgb locale, la notizia trapelò
sia tra gli ucraini, molti dei quali avevano visto i carri armati sfilare verso la frontiera cecoslovacca, sia all’estero. Nove anni dopo, il 21 gennaio 1978, un altro ucraino, Oleksa Hirnyk, compì il gesto estremo per protestare contro la russificazione e la cancellazione dell’identità nazionale ucraina, così come il tataro di Crimea Musa Mamut il 23 giugno successivo, per denunciare l’oppressione della sua nazionalità da parte dell’Urss.
Non risulta che Palach sapesse di Siwiec e Makuch, poiché nulla trapelò dalle note scritte che aveva lasciato. Invece Sándor Bauer, un liceale ungherese appena sedicenne, dichiarò esplicitamente di aver voluto seguire il suo esempio, tanto che anch’egli si dette fuoco sulla scalinata del Museo nazionale a Budapest il 20 gennaio 1969, il giorno dopo la morte di Palach, definito «il fratello ceco che ha fatto la stessa cosa». Morì tre giorni dopo. La lapide apposta dal partito di governo Fidesz nel 2001 non menziona la Cecoslovacchia. Va rilevato che in tutti questi casi le angherie poliziesche seguirono un iter analogo: stretto controllo o addirittura stato di arresto per il moribondo, persecuzione di famigliari ed amici, confisca di materiali, obbligo di svolgere il funerale in segreto, diffamazione costante del personaggio, definito «squilibrato», eccetera. Se Palach non fu la «prima torcia» nei Paesi del blocco sovietico, lo fu certamente nel suo, tanto che il suo esempio fu seguito quasi subito. Sempre il 20 gennaio, infatti, il venticinquenne Josef Hlavatý si bruciava a Pilsen, nella Boemia occidentale, e spirava cinque giorni dopo: alla base del suo gesto probabilmente vi erano anche ragioni personali (divorzio), ma era stato molto attivo durante la Primavera.
Passò un mese e fu la volta di Jan Zajíc, anche lui proveniente da una famiglia di orientamento democratico anticomunista: è impressionante come le origini politiche di tutte queste vittime fossero affini, cosa che dovrebbe far riflettere chiunque tenti di impossessarsi della loro memoria. Per essere più chiari, all’epoca il Pci si trovò in difficoltà, nonostante l’appoggio quasi immediato dato da Luigi Longo ad Alexander Dubcek; ma una destra che agitava simultaneamente cartelli che dicevano «comunisti vergogna» e altri che inneggiavano ai colonnelli golpisti greci non faceva certo miglior figura.
Diversa dai precedenti era l’origine politica di Evžen Plocek, operaio di Jihlava iscritto al Partito comunista e sostenitore delle riforme dubcekiane. Dichiaratosi stufo della compagnia forzata dei «normalizzatori», disperando ormai che gli eventi negativi potessero essere ribaltati, si diede fuoco alla vigilia della destituzione di Dubcek dal partito, il 4 aprile 1969, venerdì santo.
Poco più di un anno dopo, nel maggio 1970, spirava in