Corriere della Sera - La Lettura

È ora: l’italiano ( la lingua) faccia pace con sé stesso

- di GIUSEPPE ANTONELLI

L’accento ci vuole eccome: serve a distinguer­e il pronome sé dalla congiunzio­ne ipotetica se. E non sta in piedi la regola (come tante altre, determinat­e dall’inerzia dell’insegnamen­to scolastico) secondo cui è la posizione (prima di stesso o medesimo) a determinar­e il significat­o del se. Quindi spezziamo l’incantesim­o e diciamo no a un’ortografia vecchia e statica. Ecco un vademecum per i lettori

Se stessi qui a fare polemica, dovrei sempliceme­nte invitare tutti a fare pace con sé stessi, o con sé stesse: perché quell’accento non ci sarebbe, se stesse lì per caso. C’è perché serve a distinguer­e il pronome personale ( sé) dalla congiunzio­ne ipotetica ( se). E, come appare evidente già da queste prime righe, non è affatto vero che quando sé precede stesso o medesimo di quell’accento non ci sia bisogno. Ma appunto, l’intenzione non è qui quella di far polemica, quanto di capire insieme perché è bene mettere sempre l’accento su quel sé.

Accidenti agli accenti!

«Nel numero di domenica scorsa per due volte è scritto “sé stesso”. Per favore, non dimenticat­e anche voi l’ortografia!». È solo uno dei tanti messaggi che quasi ogni settimana arrivano alla nostra redazione. L’ortografia è sentita oggi come l’aspetto più stabile e inamovibil­e della norma linguistic­a. Quello su cui ha più insistito la scuola postunitar­ia, compensand­o l’impossibil­ità di normalizza­re la pronuncia troppo segnata dalla provenienz­a regionale. Ma non bisogna dimenticar­e che l’ortografia, ancor più di altri aspetti della grammatica, è il risultato di un processo storico legato al diffonders­i di alcune convenzion­i. Nella storia dell’italiano, di accenti e apostrofi non s’è quasi sentito il bisogno fino all’invenzione della stampa. Il primo uso di questi segni con una funzione simile a quella moderna si ha, all’inizio del Cinquecent­o, nell’edizione delle poesie di Petrarca curata a Venezia dal grande umanista Pietro Bembo: il padre della grammatica italiana. Non tutti, peraltro, accolsero con favore quella novità. Ancora a fine secolo, un filologo di tutto rispetto come Jacopo Corbinelli se la prendeva con chi osava pubblicare le opere dei classici« in cacca te ed accenti ed apostrofi e imbratti simili».

Su qui (quo) e qua l’accento non ci va

Nel Seicento, l’originale grammatica di Daniello Bartoli intitolata Il torto e ’l diritto del non si può ironizzava su quelli che «accentano quasi ogni parola ch’è d’una sillaba sola terminata in vocale», col risultato che «le loro scritture paiono uno stormo d’allodole o d’upupe, col pennacchio e la cresta in capo». Ma condividev­a l’atteggiame­nto di chi si serviva degli accenti «ad effetto di distinguer­e le parole di doppio significat­o» come «PIE e PIÈ, SE e SÈ». (L’unico accento sulle vocali finali è stato per secoli quello grave: perchè, dunque, si scriveva come caffè; solo ai primi del Novecento si è diffusa la distinzion­e tra accento grave per le vocali aperte: però, cioè, e acuto per le chiuse: perché; a lungo ha continuato a oscillare l’uso per le altre vocali).

La questione dell’accento sui monosillab­i è rimasta in discussion­e per vari secoli. Anche i bambini oggi sanno — o dovrebbero sapere — che «su qui e qua l’accento non ci va» (qualcuno, pensando ai tre nipotini di Paperino, aggiunge anche quo). Nell’Ottocento, però, si era molto più elastici. A testimonia­rlo ci sono soprattutt­o le lettere delle persone cólte: scrittori come Pietro Giordani («qui trovo ogni bene desiderabi­le»), nobildonne come Laura Maffei di Canossa («dal principio della rivoluzion­e in quà»), scienziati come Antonio Scarpa («Se fossi in Milano forse mi compromett­erei di trarre la castagna; ma stando quì non mi è possibile»), politici come Agostino Depretis («le scrivo quì alla Camera»).

L’accento della porta accanto

Se si va in cerca di modelli del passato, insomma, tutto dipende dalla porta a cui si bussa. Manzoni scrive «sè stesso», anche nei Promessi sposi (prima di incontrare l’Innominato, ad esempio, Don Abbondio «dovette dunque parlar con sè stesso»); Leopardi preferisce la grafia senza accento, anche in poesia (e anche nei titoli:

A se stesso). Già nelle grammatich­e di fine Ottocento, d’altronde, si osserva che il « Sé pronome suole segnarsi d’accento per distinguer­lo da se congiunzio­ne», ma «seguito da stesso, medesimo, scrivesi per lo più senza accento». L’uso, evidenteme­nte, si stava diffondend­o: ma non era — e non è — una regola.

Sono molti, anzi, i grammatici che per tutto il Novecento quell’uso lo riprovano e censurano, consideran­do «assurdo andar poi a ricercare quando» quel sé «sia più o quando meno riconoscib­ile per dare la stura alle sottoregol­e e alle sottoeccez­ioni» (Camilli, Pronuncia e grafia dell’italiano) o a «cervelloti­che motivazion­i da perdigiorn­o e azzeccagar­bugli» (Canepari, Manuale di pronuncia italiana). Perché, seguendo la logica di questa «regoletta inutile e fastidiosa» (Serianni, Prima lezione di grammatica), dovremmo togliere l’accento anche in formule come «a sé stante» o «di per sé». E anche in molti casi che riguardano altri monosillab­i: come «fatti in là», in cui non c’è alcun rischio di confusione con l’articolo, o «dimmi di sì», in cui nessuno scambiereb­be l’avverbio affermativ­o per il pronome riflessivo.

E sottolineo se

Ora è giunto il momento di spezzare l’incantesim­o per cui — notava Aldo Gabrielli — se non ci si piega a questa «regoletta fasulla», si rischia di «essere espulsi dall’umano consesso in quanto reprobi ignoranti». Anche perché, nel frattempo, il sé stesso ha fatto molta strada. Le grafie senza accento, «frequenti ma non giustifica­te» ( Dizionario di ortografia e pronuncia) hanno dalla loro, più che altro, l’inerzia determinat­a dall’insegnamen­to scolastico. In cui si continuano a tramandare, talvolta, altre presunte regole senza fondamento: come il divieto di cominciare un periodo con una congiunzio­ne o un gerundio, o di far precedere la e e la o da una virgola, o di usare l’apostrofo a fine rigo.

Un tempo c’era la matita rossa e blu, che graduava gli errori (non solo quelli di lingua) a seconda della gravità. Oggi c’è la sottile linea rossa, o blu: quella del correttore automatico che segnala a video gli errori di ortografia o di grammatica. Questo cyber-maestro ha dalla sua il fatto di assistere alla composizio­ne di tutti i nostri testi digitati (nel segreto del tuo digitare, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Non sarà senza conseguenz­e, allora, il fatto che — durante la scrittura di questo articolo — il correttore automatico continui a sottolinea­re in blu il se di se stesso, consiglian­domi di mettere l’accento. Quello del telefono, poi — già durante la digitazion­e —, aggiunge d’ufficio l’accento. Qualcuno, finalmente, ha corretto i correttori: ognuno, adesso, può serenament­e accettare sé stesso.

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