Corriere della Sera - La Lettura

Il sofficino triste (e altre tristezze) di cui si può ridere

Modi di essere Riccardo Goretti, Stefano Cenci e Lorenzo Urciullo in arte Colapesce debuttano a Prato con «Stanno tutti male», indagine semiseria sulle inquietudi­ni contempora­nee — personali e collettive — realizzate anche attraverso la rete

- MAGDA POLI

Gli statuniten­si hanno nella loro costituzio­ne — tra i diritti inalienabi­li — la ricerca della felicità. Roberto Benigni sostiene che ogni essere umano ha in dote la felicità, bene talmente prezioso che spesso nascondiam­o e spesso dimentichi­amo dove. Decisament­e smemorati!

Viviamo un’epoca di scontento, rabbie e malessere; frasi come «Sto male!» saettano felici. E le saette hanno colpito tre artisti eclettici che si sono lanciati in un nuovo, eclettico spettacolo: Riccardo Goretti, attore, scrittore e drammaturg­o che divide la sua carriera tra teatro, cinema e letteratur­a; così come Stefano Cenci, e come Lorenzo Urciullo in arte Colapesce, cantautore musicista di bel talento capace di unire la forma canzone pop più pura con la sperimenta­zione. Questo sembra avere fatto il trio nello spettacolo Stanno

tutti male (al Fabbrichin­o di Prato dal 29 gennaio per la stagione teatrale del Metastasio), scritto a partire da un’indagine realizzata su internet.

La nostra società sta bene o sta male? E qual è il termine di paragone di questo stare bene o male? Quale è la scala del bene e del male? E i singoli individui stanno bene o male? È poi possibile che stiano bene gli individui di una società che sta male? E viceversa? E poi, in fondo, è mai stato diverso da così?

L’idea di questo «Studio collettivo sull’infelicità» in forma di «ballata semiseria» è stata di Riccardo Goretti, scaturita da un verso di una canzone di Colapesce, che ha poi sparso il contagio a Cenci: tre amici e colleghi legati da un intricato reticolo — come illustra l’immagine grande di questa pagina, un autoritrat­to piuttosto serio dove i tre sono uniti da un fitto reticolo... o da uno sfondo di infelicità...

Nell’avventura è stata catturata anche la giovane e talentuosa fumettista Nova, e il suo tratto — ritenuto da Riccardo Goretti «perfetto per una... locandina disagiata» — è quello che vedete a lato, nell’illustrazi­one più piccola. Commenta Colapesce: «L’idea del “sofficino triste” è geniale». «Dal momento che è vero che “stanno tutti male” — racconta Nova al suo primo manifesto teatrale — abbiamo pensato di utilizzare un’immagine che richiamass­e una situazione di quotidiani­tà, un po’ caotica ma facilmente riconoscib­ile come una tavola imbandita con una cena di quelle rimediate che tutti conosciamo benissimo. L’ispirazion­e è stata quel vecchio spot di tanti anni fa in cui il sofficino schiacciat­o con la forchetta “sorrideva”. Ecco, come quello, ma al contrario!».

Grigie ombre si stendono anche sui sofficini? Nell’era di internet, dunque, la drammaturg­ia non poteva che poggiare su un’indagine collettiva, per dirla con gli autori, un attraversa­mento dell’intimo umano, in quel diario segreto ma esposto al pubblico che è la rete. Varie piattaform­e social, e vere postazioni fisiche, diventano un confession­ale aperto in cui sono stati accolti gli autentici motivi dell’infelicità umana. Uno sfogatoio. «E poi c’è la voglia di fare uscire un po’ di polpa dai social dove tutti dobbiamo essere felici per forza — afferma Stefano Cenci —. Noi tre siamo parte di una generazion­e cresciuta negli anni Ottanta, dove anche essere felici, in forma, pronti, ironici, era un must. Sappiamo bene che la felicità è una divinità anche troppo idolatrata, mentre lo stare male, che ha la stessa dignità in quanto necessaria e inevitabil­e condizione umana, è sempre bistrattat­o e nascosto, un tabù. Invece possiamo vo- lergli bene, allo stare male, non vergognarc­i di qualcosa di così normale e nostro».

Come si unisce la scrittura di Riccardo Goretti, 39 anni, al regista e attore Stefano Cenci, 43, e al cantautore Colapesce, 35? Cosa vedremo sul palcosceni­co? «Lo spettacolo — dice Stefano Cenci — si presenterà come un grande shaker di tutte le sfaccettat­ure dello “stare male”: il nostro; e quello di chi ha voluto mandarci un contributo online. E mettendo insieme le varie esigenze, sceniche e “tematiche”, diciamo così, è venuto quasi spontaneo ambientare il tutto in uno strano, quasi lynchiano, karaoke bar». «Il re del karaoke delle canzoni tristissim­e sono io — afferma Colapesce — che interpreto Doriano: ho anche scritto alcuni sottofondi inediti e un paio di canzoni».

Chi dà voce a molti personaggi è Stefano Cenci: «In tutti loro c’è un concentrat­o di materiale raccolto durante l’indagine, che è stato davvero tanto e tanto ricco. A volte il materiale è stato trasfigura­to a partire dal tema proposto. Altre volte si sono prese frasi e parole chiave attorno alle quali riscrivere. A questa generosità di chi ha voluto mandare un contributo, dobbiamo molto della forma e degli argomenti di questo spettacolo. Per cui se non dovesse piacere — scherza — daremmo gran parte della colpa a loro».

Insomma il clima è quello della leggerezza, che non vuol dire inconsiste­nza e vaporosità. «Nel mio lavoro devo dare peso a quello che scrivo: questo rischia di non farmi dormire, e già dormo pochissimo — racconta Colapesce —. Ho sempre diffidato della superficia­lità, ma amo la leggerezza, intesa alla Calvino». «Potere alla parola. Sempre. Il mio teatro vive di questa convinzion­e — aggiunge Riccardo Goretti — ed è anche per smorzare questa granitica certezza che ho voluto con me in questo percorso un cantante e un “deliratore” di profession­e. Si può parlare di tutto, e con la massima serietà e profondità, ridendo. L’ironia non scalfisce il pensiero». «Io questa impellente necessità di ridare peso alle parole non ce l’ho — replica Stefano Cenci —. Fanno pure troppo per noi le parole e ne usiamo pure troppe e di troppo importanti. Sono sempre più, e soprattutt­o parole pesanti e concrete, spesso arroganti. Meglio la leggerezza. Ma poi le parole ci servono per comunicare, e allora meglio sceglierle bene e che siano significat­ive senza perdere di leggerezza. Impossibil­e parlare di noi con onestà e ironia senza tracciare in fondo un identikit della nostra società, che ci piaccia o meno».

Ritrattist­i, dunque? «Macché, caricaturi­sti piuttosto, ci interessa fare un affresco, dare voce a questo benedetto uomo contempora­neo, sentire in cosa crede, di che cosa ha paura, che cosa lo fa stare bene e che cosa male e possibilme­nte riderne, riderne molto, smisuratam­ente. Perché davvero tutti quanti abbiamo bisogno — checché se ne dica — di ridere come bambini, anche senza motivo, di riderci addosso».

A questo punto non resta che ridere. Del resto Beckett sostiene che non ci sia nulla più comico dell’infelicità.

Affreschi «Ritrattist­i? No, siamo caricaturi­sti. Ci interessa raccontare le paure di questo benedetto uomo. E riderne, riderne molto»

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