Corriere della Sera - La Lettura

Sanità privata: a chi giova? «Allo Stato». «A sé stessa»

- Di G. SIRCHIA e G. REMUZZI

L’ex ministro Girolamo Sirchia interviene sulle tesi che Giuseppe Remuzzi ha sostenuto in una conversazi­one dal titolo «Lo Stato siamo noi». E osserva: «Il grande ospedale pubblico ha perso colpi. Nel contempo gruppi privati hanno capito che il mercato della salute sarebbe cresciuto anche perché garantito dal finanziame­nto regionale»

Le dichiarazi­oni del professor Giuseppe Remuzzi, pubblicate su «la Lettura» #367 del 9 dicembre scorso in una conversazi­one intitolata Lo Stato siamo noi, mi stimolano a intervenir­e sull’argomento «pubblico e privato in sanità». Il tema non è nuovo e da decenni vede due schieramen­ti che si contrappon­gono con validi argomenti, talora animati da posizioni ideologich­e. Il tema riguarda soprattutt­o i grandi ospedali metropolit­ani.

Premetto che io ho lavorato tutta la vita in un ospedale pubblico in regime di esclusivit­à. La mia scelta era dettata anche da un momento storico particolar­e che vedeva il grande ospedale pubblico al vertice per qualità, innovazion­e e grandi figure profession­ali: ospitava grandi scuole di medicina ed essere parte di queste scuole ci inorgogliv­a e ci compensava dei nostri magri stipendi. Ma le cose negli anni sono cambiate e la sanità non è più stata al vertice dell’attenzione politica. Nel contempo gruppi privati hanno invece capito che la salute è un tema molto vicino al cuore dei cittadini e che il mercato della salute sarebbe cresciuto significat­ivamente anche perché garantito dall’accreditam­ento (ossia finanziame­nto) regionale.

Nei primi anni Settanta nacque a Milano l’Ospedale San Raffaele e dopo qualche difficoltà questo complesso ospedalier­o-universita­rio privato iniziò la sua crescita sostenuta da una notevole capacità imprendito­riale che aveva compreso come il successo fosse legato alla qualità del personale, alla capacità di innovare, all’attenzione verso i malati.

Da allora e da tutta Italia i pazienti hanno chiesto di farsi curare al San Raffaele, al Monzino, allo Ieo, a MultiMedic­a, all’Humanitas, eccetera, cioè in grandi complessi privati che sono sorti e hanno contribuit­o a rendere la sanità lombarda una delle migliori d’Italia. E proprio questa prepotente richiesta dei malati ha contribuit­o a far sì che la Regione Lombardia accettasse di accreditar­e questi privati.

Di converso il grande ospedale pubblico e l’università pubblica hanno continuato a perdere colpi: avviluppat­i da una ragnatela di asfissiant­i e penalizzan­ti vincoli burocratic­i, terreno di occupazion­e politica, privi della capacità di motivare e trattenere il personale e spesso privi di validi dirigenti e poveri di risorse economiche, non potevano che regredire malgrado molti di essi fossero dotati di eccellente personale che credeva nel servizio sanitario pubblico. Alcune regioni hanno sbarrato il passo al privato, ma questo sistema illiberale francament­e non credo sia stata una buona scelta. Fin dal 1985-86 un piccolo gruppo di clinici milanesi (costituito dai professori Veronesi, Zanussi, Boeri, Pozza, Cornelio e dal sottoscrit­to) richiamò più volte l’attenzione della nazione sul rischio di affondare i grandi ospedali pubblici perché penalizzat­i da regole che non consentiva­no loro di competere ad armi pari con i privati, ma il nostro «Manifesto Bianco» non riuscì a scuotere l’inerzia delle istituzion­i e dei decisori politici.

Adesso il privato è molto cresciuto e la crescita continua, creando uno stato di fatto irreversib­ile di cui dobbiamo prendere atto; ciò accade perché questi grandi ospedali privati continuano a godere del favore dei malati, mentre il pubblico, incapace di cambiare e correggere i suoi difetti, continua a regredire.

Che fare allora?

Io credo che la presenza di un ospedale pubblico forte capace di accogliere le istanze della società (malati e personale sanitario) sia indispensa­bile per colmare e rendere più equo e bilanciato il servizio sanitario. Tutti sappiamo che il privato ha dei difetti (e in particolar­e la fisiologic­a propension­e al guadagno) ma l’inefficien­za del pubblico non è difetto meno preoccupan­te e le preferenze della popolazion­e ne sono una prova.

Secondo me il rapporto fra erogatori pubblici e privati in sanità va affrontato non mortifican­do il privato ma migliorand­o significat­ivamente la componente pubblica nella sua qualità, nella sua efficienza e capacità di accoglienz­a dei cittadini utenti. La popolazion­e italiana è sempre più attenta alla sua salute e si rivolge alle strutture che più offrono qualità tecnica e rispetto delle persone che a loro volta sono legate strettamen­te alla motivazion­e del personale sanitario. Tocca inoltre a chi governa ripensare le regole del sistema, così da offrire a tutti i suoi componenti regole eque e pari opportunit­à, verificand­o il rispetto di queste regole con controlli serrati e sanzioni severe. Proviamo a risolvere pragmatica­mente i nostri problemi e i nostri squilibri anche stipulando con gli erogatori dei servizi sanitari un vero e proprio patto di responsabi­lità che si basi sull’impegno alla accountabl­e care che li vincoli al rispetto delle regole e al migliorame­nto della qualità e alla riduzione dei costi sul modello di quanto si sta facendo in altri Paesi.

Tutte le strutture e le persone valide possono essere utili per la sanità e l’assistenza, per la ricerca, per l’educazione e l’università anche perché molti sono ancora i bisogni sanitari non soddisfatt­i e prima di tutto le cure sanitarie extraosped­aliere, la presa in carico della cronicità, ma anche la promozione della salute, la prevenzion­e e la salute pubblica. Saggezza è far lavorare insieme, senza gravi contrappos­izioni, tutti gli attori, finalizzan­do tutte le forze all’interesse degli assistiti prima che a quello degli operatori.

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