Corriere della Sera - La Lettura
Bellezza sostantivo plurale
La scienza (a partire da Pitagora) ha consolidato la fiducia nella possibilità di rappresentare il mondo e trovarne la verità, e di farlo guidati da un criterio estetico. Ma la scienza, da sola, non basta. Ne discutono un fisico (curatore di un volume che raccoglie le riflessioni del Nobel Paul Dirac), un filosofo e un romanziere
«Il ricercatore, nel suo sforzo di esprimere matematicamente le leggi fondamentali della natura, deve mirare soprattutto alla bellezza», scrisse il fisico Paul Dirac (1902-1984), Nobel nel 1933. Le sue riflessioni sono ora raccolte in un volume, La bellezza come metodo (Cortina), ed esprimono la fiducia sia nella possibilità di rappresentare il mondo e trovarne la verità, sia di riuscire a farlo guidati da un criterio estetico. Nella matematica e nella fisica, e non solo, la bellezza intesa come ordine e proporzione — capacità di misurare il mondo e, alla fine, di contenerlo, controllarlo — è un modello estetico che nasce nell’antica Grecia e che resiste nei secoli, fino a noi. Eppure, anche oggi, nell’epoca del calcolo più sofisticato e dei progressi dell’intelligenza artificiale, il bello inteso come regola e misura, da solo, non basta.
«Sulla morte di mio padre cade pian piano il tempo, e già molte volte ho avuto difficoltà a ricordarlo. Tuttavia ciò non m’intristisce», scardina ad esempio lo schema Manuel Vilas, autore spagnolo che nel suo Paese alcuni critici hanno avvicinato a Fernando Aramburu. «Che mio padre cammini verso la dissoluzione totale — prosegue Vilas —, nella misura in cui io sono, insieme a mio fratello, l’unico che lo ricorda, mi pare di un’elevata bellezza». È uno dei passaggi, forse il più provocatorio, apparentemente paradossale, del libro In tutto c’è stata bellezza, che in Italia uscirà il 31 gennaio per Guanda e che «la Lettura» ha visto in anteprima. Uno scavo nelle memorie familiari dell’autore ma anche un’indagine, appunto, su cosa sia la bellezza, condotta su un piano che ci permette di passare dalla teoria e dall’astrazione alla vita reale di corpi, legami, sensazioni.
Ovviamente i contesti sono diversi: la letteratura e la scienza (è di pochi giorni fa anche un lungo articolo del «New York Times Magazine» in cui si dà conto di come si stia ridiscutendo il ruolo della bellezza nella teoria evoluzionista darwiniana). Eppure arriva da entrambi i fronti la sollecitazione a interrogarsi sul bello, specie alla luce delle repentine trasformazioni indotte dalla tecnologia. Sul tema abbiamo chiamato a confrontarsi lo stesso Manuel Vilas, il fisico Vincenzo Barone, curatore del nuovo volume che raccoglie le riflessioni di Paul Dirac, e il filosofo Remo Bodei, il cui saggio Le forme del bello (il Mulino, uscito nel 2017 in un’edizione aggiornata) rappresenta uno dei capisaldi negli studi sull’estetica.
Che cos’è, dunque, la bellezza?
REMO BODEI — Non esiste una definizione univoca. Possiamo parlare piuttosto di una definizione «a grappolo», che contiene i diversi concetti di bellezza elaborati dalla tradizione occidentale. Concetti che si sono alternati, modificati, ma anche intrecciati lungo i secoli. Il modello più incisivo e duraturo, da oltre duemila anni, è quello inaugurato da Pitagora e presente ancora oggi proprio nel pensiero di scienziati come Dirac: la bellezza è calcolabile, è un numero. Bello è ciò che ha armonia, proporzione, simmetria. Alla base di questa visione ci fu la sconfitta di una specie di «bestia» matematica, l’incommensurabilità, che avvenne grazie al teorema di Pitagora. Fu proprio il celebre pensatore greco a chiamare il mondo kósmos, «ordine», termine che in precedenza indicava solo il maquillage delle donne, la «cosmetica». Il mondo, dunque, è misurabile e i numeri sono belli e veri. S’instaura da questo momento in avanti quella «trinità» di bellezza, verità e bontà che passerà per Piero della Francesca, ma anche per Galileo, Keplero, Newton. Resterebbe però incomprensibile, a questo punto, perché ci appaiano belle opere come l’incompiuta Pietà Rondanini di Michelangelo oppure un quadro dell’ultimo William Turner, dove sembra che si agitino
Il modello più incisivo e duraturo è che la bellezza è calcolabile, è numero. Da qui nasce il termine che indica il mondo: «kósmos» significa ordine. Ma con il tempo — e nello spazio — i canoni sono cambianti. Perché allora alcune immagini e alcune situazioni ci appaiono universalmente belle? Qui entra in gioco l’amore...
e colino fluidi colorati. Principale antagonista alla forma classica chiusa e regolare, è infatti un altro concetto estetico: l’indefinibile, il «non so che» come lo chiamò Petrarca, l’ingrediente imponderabile che fa essere bello qualcosa, oltre tutti i parametri di misura e proporzione. A sconfessare questi ultimi teoricamente è il Barocco. Mentre nel Novecento assistiamo a nuovi capovolgimenti: le ideologie, i regimi, le tragedie della storia trasmettono l’idea che la bellezza sia diventata inautentica, mera propaganda. La vera bellezza è allora nel rimosso, in ciò che fa soffrire, costretta a nascondersi per sfuggire ai poteri costituiti. Diventa pelle d’oca, il sentirsi colpiti all’improvviso da un sentimento più grande di noi, che non coincide con la situazione in cui ci troviamo. È estasi, il venire trasportati fuori da sé.
MANUEL VILAS — Il fatto che in spagnolo la parola belleza sia quasi uguale al vostro bellezza, mostra già la comunanza delle radici storiche e filosofiche dei nostri due Paesi e delle nostre tradizioni. Quanto a me e a ciò che lascio emergere nel libro, la mia idea è che la bellezza sia l’enigma del passato, la sensazione di nostalgia per ciò che hai perso, per chi hai amato. Mio padre, mia madre: tra le pagine si respira la bellezza del passato proprio perché è il momento in cui esistevano i miei genitori. Il narratore, una volta morti, una volta diventati fantasmi, usa proprio l’aggettivo «belli» per definirli. Il senso del bello è legato universalmente alla famiglia. Certo, ci sono eccezioni, ma la maggior parte dei figli ama il padre e la madre, la famiglia è un luogo in cui nasce la bellezza. Quella di cui parlo io però, è appunto, soprattutto, la bellezza che scaturisce dalla nostalgia, dal tentativo di recuperare il tempo perduto, come diceva Marcel Proust. Un tentativo che è esso stesso bello. Più in generale, credo che il piacere estetico sia un sentimento d’allegria davanti al mistero della vita. E che abbia un legame molto forte con l’amore, che si unisca con l’amore. Nel 2019, infine, dovrebbe avere anche una dimensione politica. Intendo dire che i cittadini hanno il diritto di godere della bellezza e di rivendicarla. Non vanno soddisfatti solo i loro bisogni di base, devono poter aspirare anche alla bellezza, al suo carattere spirituale. Garantire a tutti l’accesso alla cultura è, ad esempio, uno dei modi per farlo. VINCENZO BARONE — Nel mio mondo, la fisica, ci sono teorie universalmente riconosciute belle, come quella di Paul Dirac sull’elettrone e l’antimateria, oppure la relatività generale di Albert Einstein. Nonostante ciò è difficile dare una definizione di bellezza. Diciamo piuttosto che esistono alcuni criteri a cui risponde. Uno è la semplicità logica. Isaac Newton, ad esempio, è più elementare sul piano matematico rispetto ad Einstein, ma quest’ultimo è più semplice dal punto di vista logico: spiega più cose con un minor numero di concetti e relazioni fondamentali. Una teoria bella abbraccia fenomeni nel modo più economico possibile. Un secondo ingrediente è la riduzione al minimo degli elementi contingenti o arbitrari. Infine, c’è una collegamento sottile anche con la simmetria. All’inizio fu intesa in senso pitagorico, come commensurabilità. Poi fu associata prevalentemente all’armonia e alla proporzione tra le parti. Solo tra Settecento e Ottocento si capì che la simmetria è dinamica: una figura è simmetrica non solo se è ben proporzionata, ma se facendo un’operazione, una
trasformazione sulla figura stessa, rimane invariata. È questo il modo in cui il concetto di simmetria arriva oggi nelle teorie fisiche. In ogni caso, una volta riconosciuti la bellezza e i suoi criteri, va chiarito quale sia la loro funzione nel mondo della fisica. Al netto che il nostro principio-guida resta comunque, sempre, che le teorie devono essere sostenute dai fatti, dalle prove sperimentali.
REMO BODEI — Per Dirac, in realtà, una formula può essere vera anche contro elementi di carattere empirico. Mi colpisce poi la sua distinzione tra semplicità ed eleganza: Newton ha appunto un’idea di bellezza come semplicità, intesa nel senso comune di essere più facile, più elementare, potremmo dire a risparmio, mentre in Einstein c’è un’eleganza maggiore, una sorta di bellezza più elevata, personalizzata.
VINCENZO BARONE — Quello di Dirac, è vero, è un estetismo estremo, secondo cui è quasi più importante che le teorie siano belle piuttosto che rispondano ai fatti empirici. Senza arrivare a questo, possiamo dire che i criteri empirici restano sempre i più importanti, ma che non ci sono solo quelli. Ci sono anche la semplicità e l’eleganza, appunto. Generalmente una teoria bella è anche più esplicativa. E non dobbiamo dimenticare che le teorie servono innanzitutto per spiegare il mondo.
Dare ordine al caos del mondo, della natura o dei sentimenti. È questo il denominatore comune della bellezza nei vostri diversi ambiti?
REMO BODEI — La bellezza è sostanzialmente ordine. È come mettere insieme i pezzi di un puzzle e vedere che coincidono. Il problema è che, anche se ciascuno la riconosce, nella pittura, nella scultura, nella matematica, nessuno può definire la bellezza. È ineffabile, ma non perché non si può dirne niente. Piuttosto perché si può, si deve, dirne troppo. Accade come con la costante matematica pi greco: se provi a scriverla, non finisci mai di aggiungere numeri. Quindi la bellezza è un eccesso, è qualcosa che ci sovrasta. Definire significa porre dei limiti, riguarda l’intelletto. La bellezza invece va oltre, è la super bellezza di cui parlava Plotino: non perché sia di qualità superiore, ma nel senso della sua indefinibilità. In questo scenario, resta comunque che la matematica, la filosofia, la biologia, tutte le scienze e discipline cercano di dare un ordine al caos. E lo fa anche chi sembra in apparenza più lontano dal concetto di bello come misurabilità. Friedrich Schlegel, uno dei fondatori del Romanticismo, conia l’idea della bellezza come rapporto tra sistema e caos. Smonta l’armonia, invita ad abbandonare, anche in poesia, le «metafore morte» che nasconderebbero la bellezza di ordine superiore, ma introduce comunque il caos nel sistema.
MANUEL VILAS — Non credo che il mio concetto di bellezza abbia a che fare con la lotta contro il caos. È legato all’emotività. È vicino, immediato, non è filosofico, non ha nulla di intellettuale. Mi interessa solo la sensazione che provo io, adesso. La mia estetica è un processo di innamoramento. La bellezza è qualcosa di semplice, di umile, che riguarda il quotidiano. Le cose che fa-
Vincenzo Barone «Il primo criterio estetico nella fisica è la semplicità logica: in Einstein è superiore che in Newton» Remo Bodei «La bellezza è come il pi greco: se provi a scrivere la costante, non smetti di aggiungere cifre. È un eccesso» Manuel Vilas «La mia idea è che la bellezza sia l’enigma del passato: la sensazione di nostalgia per ciò che hai perso, per chi hai amato»
ceva mio padre da vivo sono belle, e io le recupero, le salvo nel mio libro: i vestiti che indossava, le scarpe, l’auto. Questo per me è bellezza. Come cucinava mia madre, come puliva, come innaffiava le piante, come prendeva il sole in terrazzo, la voglia che aveva di abbronzarsi, come l’estate spagnola penetrava nel suo corpo, il suo amore per il Mediterraneo. La bellezza è qualcosa di concreto, che dunque si può raccontare, si può narrare.
Il concetto di bellezza è cambiato e cambia nel tempo. Perché allora alcune immagini, alcune ambientazioni, come il mare appunto, risultano sempre universalmente belle?
MANUEL VILAS — Di universale c’è l’amore. Noi sentiamo la bellezza perché, dietro, c’è l’amore. Alcune immagini come il mare, le montagne, il deserto riflettono il mistero della vita, e quando ti confronti con tutto questo provi amore e bellezza. La scienza moderna, nonostante tutti i suoi progressi, non è ancora riuscita a decifrare questo mistero, a dire come si origina la vita intelligente. Questa sfida compete ancora esclusivamente alla letteratura, che invece questo mistero può avvicinarsi a descriverlo.
REMO BODEI — Di fronte ad alcuni fenomeni ci sono delle costanti, anche tra diverse culture, di fronte ad altri invece c’è una variabilità infinita di reazioni. Esistono degli archetipi, per usare il linguaggio di Carl Gustav Jung. Davanti al vento, al mare, alla vecchiaia, si accende nell’animo umano, erede della nostra storia evolutiva, qualcosa che riconosciamo, che ci fa vibrare l’animo. Ed è anche vero, come dice Vilas, che il rapporto con l’amore ci cambia. Expansio animi ad magna, «espansione dell’animo verso le cose grandi», dice una definizione medievale di amore: qualcosa che sentiamo ma che è più grande di noi. Una chiave per leggere la bellezza è proprio in questa espansione di ciò che proviamo, che emerge anche in una pagina di Vilas relativa alla sofferenza. «Il dolore — scrive — non è assolutamente un impedimento alla gioia, perché per me è legato all’in-
tensificazione della coscienza. La sofferenza è una coscienza espansa che raggiunge tutte le cose che sono e saranno. È una specie di amabilità segreta verso tutte le cose. Cortesia verso tutto ciò che è stato. E dall’amabilità e dalla cortesia nasce sempre l’eleganza». Ecco, la «cortesia verso tutto ciò che è stato» è la bellezza, la nostalgia di cui parlava lo scrittore definendo la sua estetica.
VINCENZO BARONE — Non è raro che il riconoscimento della bellezza si associ ad altri sentimenti. Accade anche nel mondo fisico-matematico, in cui ricorrono in particolare due emozioni. La sorpresa. E la paura. Dirac parla di «paura del Creatore», il timore che emerga qualcosa che possa compromettere la bellezza. Il biologo britannico Thomas Henry Huxley, convinto sostenitore dell’evoluzionismo darwiniano, parlò del terrore dello scienziato che un fatto brutto uccida una bella teoria.
A proposito di Charles Darwin, nuove acquisizioni vanno nella direzione che la bellezza del mondo animale non possa spiegarsi solo in termini di evoluzione naturale. Esiste dunque una bellezza per la bellezza, fine a sé stessa, o il piacere estetico ha sempre uno scopo?
VINCENZO BARONE — Nella fisica non c’è bellezza fine a sé stessa. La bellezza ha sempre una funzione: aumentare il potere esplicativo di una teoria. La scienza, lo abbiamo detto, è il tentativo di dare ordine al mondo. Non riuscirei a immaginare qualcosa di molto bello senza collegarlo a questo tentativo.
REMO BODEI — Darwin ha scritto che la coda del pavone maschio lo faceva stare male. Lo scienziato stesso non ne capiva con certezza la funzione. Molti interpreti però lo hanno equivocato. Per Darwin la scelta sessuale sulla base del senso estetico aumenta le possibilità riproduttive dell’animale, ma non ha alcun diretto rapporto con l’ereditarietà e la selezione naturale. Quest’ultima punta ad aumentare le possibilità di sopravvivenza, dice Darwin, e «dipende dal successo di entrambi i sessi», non solo dal maschio e da quanto possa piacere. Andando oltre Darwin, tuttavia, gli attuali fautori dell’estetica evoluzionistica sostengono che in tutte le spe-
cie, incluso l’uomo, la bellezza funga da richiamo sessuale in vista dell’evoluzione. In anni recenti anche una nuova disciplina, la neuroestetica, si è messa alla ricerca delle origini del bello: lo collega, in particolare, a meccanismi cerebrali e all’attivazione di uno specifico campo della corteccia. Ma l’individuo, pur non potendone prescindere, non è solo corpo, cervello o rete neuronale. Prendiamo il sorriso: è una contrazione di muscoli, ma ha anche significati affettivi e sociali. E questi ultimi, a loro volta, non esistono senza il corpo, come invece accade nella fantasia per il Gatto di Alice nel Paese
delle meraviglie. L’idea di bellezza non va quindi ridotta ai soli meccanismi cerebrali, né alla riproduzione sessuale o all’inconscio. La percezione del bello è sì qualcosa che è in me — come abbiamo detto ci sono degli archetipi innati — ma presuppone aspetti storici, ambientali, culturali, come la conoscenza della musica, della letteratura, della storia dell’arte. Inoltre, sono d’accordo con Vilas, a questo si aggiunge la bellezza del quotidiano, basti pensare alle splendide nature morte della pittura fiamminga.
MANUEL VILAS — Tutto ciò che è bello ha valore di per sé, indipendentemente dall’avere o meno uno scopo. Esiste anche una bellezza assoluta, che non ha una utilità, ed è quella della morte, con la quale tutti noi prima o noi dobbiamo confrontarci. Proviamo verso chi se n’è andato un sentimento di amore, o comunque un legame. Un sentimento che esiste sempre fra chi resta e chi non c’è più, che è come un tendere la mano a chi se n’è andato. Ecco, in questo gesto, in questo tendere la mano verso i nostri defunti c’è la bellezza.
Una delle sfide della tecnologia è farci vivere più a lungo. Nella Silicon Valley c’è chi da tempo investe in progetti per sconfiggere la morte. Cambierà anche il concetto di bellezza?
MANUEL VILAS — Io sono un ottimista. Credo che la storia continuerà ad avanzare e che da qui a cent’anni il mondo sarà un posto più divertente in cui vivere, in cui si godrà molto di più del piacere della bellezza. Probabilmente ce ne sarà un senso più sofisticato, perché ci saranno più mezzi, più opportunità. L’aspettativa di vita in Spagna è oggi di 82 anni per gli uomini, di 83 per le donne. Tra un secolo sarà superiore ai cent’anni. E credo che ci sarà molta bellezza nella longevità. Mi piacerebbe diventare ultracentenario: il mio corpo, e il suo perdurare, sarebbero essi stessi bellezza.
REMO BODEI — In realtà nello sfasciamento del corpo non è facile vedere armonia e proporzione, ma gli stessi greci avevano un sostantivo, che oggi viene ancora usato come nome proprio in alcune zone d’Italia: Calogero, composto di «bello, buono» e «vecchiaia». Un concetto di «bella vecchiaia» che vediamo rappresentata anche in certe tele di Andrea Mantegna. Dunque esiste il bello anche nell’età anziana. Il fatto che non sia colto, che si ricerchi piuttosto la perfezione dei corpi, deriva dal fatto che, al livello della società di massa, viviamo un periodo giovanilistico. Tra i motivi c’è il consumismo: chi ha meno anni acquista di più. Un altro fronte dell’evoluzione tecnologica, nel prossimo futuro, sarà l’introduzione di nuovi supporti: l’ologramma, la realtà virtuale, l’intelligenza artificiale, i big data. Di sicuro potranno influenzare la nostra idea di bello, ma l’errore maggiore sarebbe il vittimismo di dire che le macchine distruggeranno il senso estetico, che la bellezza scomparirà. Esistono forme di visual art o installazioni impensabili prima. Il problema è che già viviamo in un’epoca di estetica diffusa, in cui, attraverso fenomeni come la moda o il design, l’arte è arrivata fino alla nostra caffettiera. Un fenomeno di per sé non negativo, ma che porta con sé un’inflazione del bello, a scapito della qualità, e una perdita di regole estetiche chiare. Scenari da conoscere e tenere presenti in un nuovo contesto in cui la riproducibilità e pervasività dell’arte saranno ulteriormente potenziate dalle nuove tecnologie.
VINCENZO BARONE — Quando parliamo di bellezza nell’arte tendiamo a pensare alla bellezza classica, più a Raffaello che non alle installazioni di oggi. Invece che guardare avanti, bisognerebbe forse riflettere sull’attualità o inattualità del termine bellezza, in relazione all’esperienza artistica, già nel nostro tempo. Nella fisica in questa fase c’è un gran parlare di bellezza. Ma nel nostro caso il rischio è un altro. È vero che il criterio del bello concorre a costruire e giudicare una teoria, ma la verifica empirica resta sempre, come abbiamo detto, il principio fondamentale. Nei casi in cui questa verifica non sia possibile, il pericolo è che la forza del bello prevalga sulla forza del vero, che un eccessivo formalismo allontani la fisica dalla realtà. In questo modo però la nostra disciplina verrebbe ridotta a un tipo di scienza molto diversa da quella galileiana, che ha sempre aderito all’evidenza sperimentale. Se ne discute ad esempio, a proposito della teoria delle stringhe (l’idea che i costituenti elementari del mondo non siano particelle ma piccolissime «corde» quantistiche, oggetti estesi). Questa teoria infatti, ancora speculativa e congetturale, ha un lato empirico debole e questo fa pensare ad alcuni che vada cambiata l’epistemologia. Personalmente lo ritengo un rischio che comporterebbe la degenerazione della fisica così come si è esercitata per quattro secoli. La nostra disciplina deve continuare a confrontarsi con il mondo e la realtà, altrimenti anche noi che l’abbiamo fatta finora stenteremmo a riconoscerla.
Esiste una bellezza fine a sé stessa, senza uno scopo. Lo splendore della coda del pavone è un mistero che faceva stare male Darwin