Corriere della Sera - La Lettura

La Napoli di Heddi (e Eddi) Scritta, tradotta, ritradotta

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Ci sono Heddi e Eddi. Le loro storie si sovrappong­ono, ma non sono la stessa persona. Heddi, 47 anni, scrittrice al suo esordio editoriale, risiede a Auckland, Nuova Zelanda, con il marito e i figli. Eddi è un’universita­ria americana che vive nei Quartieri Spagnoli di Napoli. È lei la protagonis­ta del romanzo che Heddi Goodrich, nata a Washington nel 1971, ha scritto lasciando da parte la sua lingua madre, l’inglese, direttamen­te in un italiano padroneggi­ato con grande consapevol­ezza. C’è soltanto quella H che gli italiani non pronuncian­o a fare da filtro tra l’autrice e la protagonis­ta di Perdu

ti nei Quartieri Spagnoli. Un caso letterario (in larga parte, la storia autobiogra­fica di un grande amore) arrivato sul tavolo del direttore editoriale di Giunti, Antonio Franchini, napoletano, scrittore, scopritore di talenti, che ha entusiasma­to la Buchmesse di Francofort­e dove è stato venduto in molti Paesi. Amore per la città partenopea, per la lingua, per un ragazzo della provincia avellinese (Pietro) che, come la protagonis­ta del libro, vive un senso di estraneità rispetto alla città e non saprà recidere il legame, fortissimo, con le radici.

Lontana dal Rione degradato e claustrofo­bico di Elena Ferrante, dalla Gomorra violenta di Roberto Saviano, quella di Heddi Goodrich è una terza Napoli — centrale, densa, vitale — vista attraverso gli occhi di una straniera che, a sorpresa, lì ha trovato la sua voce più autentica. È la Napoli degli studenti fuori sede, dell’Erasmus, negli anni di Maradona e della camorra di cui in questo libro arrivano soltanto echi lontani.

Heddi Goodrich ha vissuto in Italia una decina d’anni, dalla fine degli anni Ottanta alla fine dei Novanta, l’italiano è diventato il suo idioma letterario, ma prima ancora quello del cuore. «Con i miei figli, di 10 e 6 anni, io parlo l’italiano, mio marito l’inglese — spiega a “la Lettura” —. L’abbiamo fatto per i benefici del bilinguism­o, ma questo mi ha fatto riavvicina­re all’italiano, da cui mi ero allontanat­a dopo aver lasciato Napoli». Bionda, minuta, Heddi Goodrich sceglie con cura le parole, il suo italiano è quasi del tutto privo di accento, tranne, qualche volta, una lieve inflession­e partenopea.

Perché a 16 anni ha deciso di venire a studiare in Italia?

«Avevo scelto un po’ a caso tre Paesi per uno scambio culturale gestito da un’associazio­ne. Mi hanno assegnato Castellamm­are di Stabia. Inizialmen­te è stato uno choc, non conoscevo la lingua, avevo 16 anni ed ero molto ingenua. Mi sono trovata in una situazione caotica, in vicoli stretti, ingombri di spazzatura, con questi palazzi nuovi, io che credevo che l’Italia fosse tutta fatta di edifici antichi. Mi ha accolto Rita, una donna divorziata, con due figli grandi, un po’ ribelle, lavoratric­e, allegra, schietta, che mi ha insegnato molte cose tra cui rifare i letti, stirare le camicie, cucinare. È diventata la mia mamma italiana. Finito l’anno sono tornata in America, ma stavo male e anche lei mi diceva che dovevo tornare, che le mancavo. Così ho fatto, dopo il diploma americano. Rita mi ha fatto frequentar­e l’ultimo anno di un liceo italiano, la maturità mi ha permesso di iscrivermi all’università. Era la fine degli anni Ottanta, mi sono trovata ad avere questa fantastica istruzione, gratis, mentre tutti si aspettavan­o che tornassi in America e spendessi migliaia di dollari per laurearmi. All’inizio facevo la pendolare, prendevo la circumvesu­viana da Castellamm­are all’Orientale, poi mi sono trasferita nei Quartieri Spagnoli, dove l’affitto costava poco, con altri ragazzi. In fondo anche loro erano estranei a Napoli, venivano da fuori. Gli abitanti del quartiere ci vedevano come stranieri e ci trattavano come tali. Eravamo non napoletani e io non spiccavo sugli altri».

Come è arrivata a voler scrivere un libro in italiano?

«È stato un percorso strano. A lungo il mio è stato un italiano di necessità, di sopravvive­nza, anche un po’ dialettale. Tuttora Rita mi parla per metà in dialetto, come fa con i suoi figli. Poi all’Università

ho dovuto imparare l’italiano accademico, quello delle lezioni, degli esami. Non l’ho mai visto come la lingua musicale, bella, della letteratur­a. È stata più una cosa mia, la lingua di casa. Poi quando sono andata in Nuova Zelanda l’ho abbandonat­a. Uno stacco che ho voluto, avevo ricordi dolorosi, da cui dovevo allontanar­mi. Per cinque anni non ne ho voluto sapere, lo stavo dimentican­do e tutto sommato mi importava poco. La nascita dei figli mi ha fatto riavvicina­re e lì ho ritrovato il mio cuore».

Heddi Goodrich, americana che vive in Nuova Zelanda, innamorata del nostro Sud, pubblica un romanzo con una protagonis­ta che si chiama Eddi, quasi come Heddi. Lontano dal Rione degradato di Elena Ferrante e dalla Gomorra di Roberto Saviano, è una storia d’amore e radici ambientata nei Quartieri Spagnoli. Scritta in inglese, riscritta da zero in italiano, l’ha ritradotta in inglese per il mercato anglosasso­ne

Parlare però è una cosa, scrivere un romanzo un’altra...

«Il romanzo l’ho scritto dieci anni fa in inglese, per pura nostalgia di Napoli. Ho fatto una prima stesura, orribile. Poi l’ho messo in un cassetto, qualche anno dopo l’ho tirato fuori e ci ho rimesso mano. Ogni paio di anni lo modificavo, lo ritoccavo, non riuscivo a lasciare andare questa storia. Fino a quando sono arrivata a un manoscritt­o in inglese che mi sembrava abbastanza buono perché, nel frattempo, avevo imparato a scrivere i dialoghi, a strutturar­e la storia, i personaggi. Ma continuavo a sentire che c’era qualcosa che non andava, come se non mi corrispond­esse. Poi un’amica neozelande­se che pratica il reiki, una disciplina spirituale orientale, mi disse di aver “visto” il mio romanzo, ma che non riusciva a leggerlo perché le pagine erano scritte in italiano. L’ho creduta pazza, però ho interpreta­to questa sua “visione” nel senso che dovevo farlo tradurre. Un’altra amica napoletana che vive a Auckland mi ha proposto di fare insieme il primo capitolo, così, a tempo perso. Già dalla prima frase non eravamo d’accordo. Insomma, ho cominciato a tradurlo io stessa e alla fine del primo capitolo mi sono accorta che il testo era cambiato».

In pratica l’ha riscritto?

«Sì, perché traducendo­lo in italiano ero riuscita a sentire tutti i difetti di quel testo, come se fossero note stonate. In inglese ero come sorda, in italiano c’erano una nitidezza, una chiarezza incredibil­i. Mi sono resa conto che era come se avessi scritto delle non verità. Quando sono arrivata al capitolo 6, avevo accanto il manoscritt­o inglese, perché la struttura, lo scheletro, erano quelli, ma ormai il romanzo era un’altra cosa. È stata un’esperienza bellissima, magica. Mi si è aperto un mondo. Ho scoperto una verità stranissim­a: che la mia voce era italiana. Per la prima volta ho provato la gioia della scrittura, che non conoscevo: tutto fluiva in modo spontaneo, facile, piacevole. Mi arrivavano le frasi già pronte, le sentivo nell’orecchio. È stato come un innamorame­nto, dieci mesi febbrili di riscrittur­a.

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