Corriere della Sera - La Lettura
No, la sanità privata aiuta la sanità privata
Ma salute e mercato («e il mercato di cui parliamo è finanziato per l’80% da fondi pubblici») — replica Remuzzi — non vanno d’accordo. «Il mercato tende ad aumentare la produzione e il fatturato; il pubblico ha come primo obiettivo ridurre il fatturato attraverso la prevenzione: meno protesi, meno dialisi, meno chirurgia coronarica...»
Il Servizio sanitario — istituito nel nostro Paese nel 1978 — tutela la salute di tutti indipendentemente dal ceto sociale e dal reddito e non costa nemmeno tanto. È la cosa più preziosa che abbiamo, dovremmo esserne gelosi e fare di tutto per conservarlo e perché torni a essere al centro dell’agenda politica di qualunque governo. Non è così.
Negli ultimi anni purtroppo la quota di Pil destinata alla tutela della salute è in lenta ma costante diminuzione — dal 7,3 per cento del 2010 al 6,7 del 2017; nel 2020 si prevede sarà al 6,4 (e pensare che l’Organizzazione mondiale della sanità considera 6,5 la soglia sotto la quale diminuisce persino l’aspettativa di vita). Tutto questo mentre la domanda aumenta: un po’ per l’invecchiamento della popolazione, un po’ per le nuove possibilità di cura e nuovi costosissimi farmaci. È in questo scenario che «gruppi privati hanno capito che il mercato della salute sarebbe cresciuto anche perché garantito dall’accreditamento (ossia finanziamento) pubblico». Questo virgolettato sintetizza come meglio non si potrebbe le due questioni fondamentali: il «privato» di cui stiamo parlando è finanziato per l’80 per cento con fondi pubblici, e opera secondo le leggi del mercato. Solo che salute e mercato non vanno d’accordo, per una ragione molto semplice: il privato tende per la sua stessa natura ad aumentare la produzione e in definitiva il fatturato (e guai se non fosse così); il pubblico viceversa ha come prima preoccupazione quella di ridurlo, il fatturato, attraverso la prevenzione (meno protesi dell’anca, meno chirurgia coronarica, meno dialisi per esempio).
Non solo, il pubblico non può scegliere che cosa curare, si deve occupare di tutto e farlo anche quando più si lavora più si perde. «Se permetti ai mercati di decidere il destino della tua gente fai un pessimo ser- vizio al tuo Paese», dice il primo ministro della Nuova Zelanda, Jacinda Ardem. Proprio così, e non è una novità: quarant’anni fa Arnold «Bud» Relman, indimenticabile direttore del «New England Journal of Medicine» criticava con forza The New Medical-Industrial
Complex, la nuova industria della salute che grazie ad attività for profit fatturava già allora negli Usa fra i 30 e i 40 miliardi di dollari all’anno. Cosa c’è di male, direte voi? «Moltissimo — secondo Relman —. Con così tanti soldi si arriva a influenzare in modo del tutto indebito la politica sanitaria della nazione. Non solo: l’industria della salute non è diversa dalle altre e risponde alle esigenze degli azionisti invece che ai bisogni degli ammalati».
Quello che è successo negli anni ha dimostrato che «Bud» Relman aveva ragione: il servizio sanitario del Paese più ricco del mondo costa più di qualunque altro — 9.403 dollari all’anno per persona — il 17,8% del Pil — ed è di gran lunga quello con le peggiori performance fra i Paesi industrializzati. L’Italia, con una spesa pubblica pro-capite di 1.850 euro, continua a essere ai primi posti nelle classifiche di qualità dei suoi servizi di salute, e tutto questo nonostante gli ospedali siano continuamente alle prese con una burocrazia soffocante, regole e vincoli che non consentono di competere ad armi pari.
E allora? Basterebbe dare agli ospedali lo stato giuridico di «imprese» (articolo 41 della norma costituzionale previsto per chi, pubblico o privato, eserciti servizi pubblici essenziali); se gli ospedali pubblici potessero operare con le regole del diritto privato come da codice civile (art. 2082), tante difficoltà di oggi sarebbero superate, e si sconfesserebbe anche il luogo comune dell’«efficienza del privato e inefficienza del pubblico»: è un ritornello che si sente sempre ripetere, ma per cui non ci sono dimostrazioni convincenti e che a volte nasconde grandi interessi.
E poi perché si parla sempre di efficienza e mai di efficacia? È quest’ultima a cui dovrebbe tendere qualunque intervento di salute. O no? A questo proposito il titolo di un articolo del «New York Times» di questi giorni fa venire i brividi. No Cash, no Heart, «Niente soldi, niente cuore». In altre parole se vuoi un trapianto devi avere i soldi: «Se lo fai a chi non ha i soldi per pagare il chirurgo e per le cure antirigetto (che vanno fatte per tutta la vita) quel cuore finirai per sprecarlo». È la quintessenza dell’efficienza (e del pragmatismo), ma non si può certo dire che sia efficace per chi avrebbe bisogno di un trapianto per continuare a vivere.
Questo vuol dire che l’attività privata va scoraggiata, sempre e comunque? Niente affatto, purché si tratti di privato-privato sostenuto cioè da chi — direttamente o indirettamente — paga di tasca propria, ed è legittimo che il privato voglia avere sempre più pazienti da Paesi come Russia, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi al punto di combinare l’offerta di prestazioni mediche con programmi turistici: prima ti faccio visitare l’Italia e poi ti curo (nel 2017 si è fatta persino una fiera internazionale, per «promuovere l’offerta di salute e incrementare il volume di attività»). Va bene e potrebbe persino avere ricadute positive sulla nostra economia a condizione però che chi prevede ritorni economici da questa attività non debba poi pesare sulla fiscalità collettiva.
Che fare allora? Il servizio pubblico dovrebbe tornare a essere protagonista del benessere di chi vive in Italia e andrebbero integrate le cure primarie con quelle specialistiche degli ospedali. La struttura sanitaria privata dovrebbe essere accreditata solo quando e dove il pubblico è carente; vanno chiusi i piccoli ospedali ma non qualcuno, tutti; e da ultimo si dovrebbe tornare a investire sui giovani, di cui c’è grande bisogno, così che la loro disponibilità e il loro entusiasmo diventino il motore per far ripartire il Servizio sanitario nazionale.