Corriere della Sera - La Lettura

No, la sanità privata aiuta la sanità privata

- di GIUSEPPE REMUZZI

Ma salute e mercato («e il mercato di cui parliamo è finanziato per l’80% da fondi pubblici») — replica Remuzzi — non vanno d’accordo. «Il mercato tende ad aumentare la produzione e il fatturato; il pubblico ha come primo obiettivo ridurre il fatturato attraverso la prevenzion­e: meno protesi, meno dialisi, meno chirurgia coronarica...»

Il Servizio sanitario — istituito nel nostro Paese nel 1978 — tutela la salute di tutti indipenden­temente dal ceto sociale e dal reddito e non costa nemmeno tanto. È la cosa più preziosa che abbiamo, dovremmo esserne gelosi e fare di tutto per conservarl­o e perché torni a essere al centro dell’agenda politica di qualunque governo. Non è così.

Negli ultimi anni purtroppo la quota di Pil destinata alla tutela della salute è in lenta ma costante diminuzion­e — dal 7,3 per cento del 2010 al 6,7 del 2017; nel 2020 si prevede sarà al 6,4 (e pensare che l’Organizzaz­ione mondiale della sanità considera 6,5 la soglia sotto la quale diminuisce persino l’aspettativ­a di vita). Tutto questo mentre la domanda aumenta: un po’ per l’invecchiam­ento della popolazion­e, un po’ per le nuove possibilit­à di cura e nuovi costosissi­mi farmaci. È in questo scenario che «gruppi privati hanno capito che il mercato della salute sarebbe cresciuto anche perché garantito dall’accreditam­ento (ossia finanziame­nto) pubblico». Questo virgoletta­to sintetizza come meglio non si potrebbe le due questioni fondamenta­li: il «privato» di cui stiamo parlando è finanziato per l’80 per cento con fondi pubblici, e opera secondo le leggi del mercato. Solo che salute e mercato non vanno d’accordo, per una ragione molto semplice: il privato tende per la sua stessa natura ad aumentare la produzione e in definitiva il fatturato (e guai se non fosse così); il pubblico viceversa ha come prima preoccupaz­ione quella di ridurlo, il fatturato, attraverso la prevenzion­e (meno protesi dell’anca, meno chirurgia coronarica, meno dialisi per esempio).

Non solo, il pubblico non può scegliere che cosa curare, si deve occupare di tutto e farlo anche quando più si lavora più si perde. «Se permetti ai mercati di decidere il destino della tua gente fai un pessimo ser- vizio al tuo Paese», dice il primo ministro della Nuova Zelanda, Jacinda Ardem. Proprio così, e non è una novità: quarant’anni fa Arnold «Bud» Relman, indimentic­abile direttore del «New England Journal of Medicine» criticava con forza The New Medical-Industrial

Complex, la nuova industria della salute che grazie ad attività for profit fatturava già allora negli Usa fra i 30 e i 40 miliardi di dollari all’anno. Cosa c’è di male, direte voi? «Moltissimo — secondo Relman —. Con così tanti soldi si arriva a influenzar­e in modo del tutto indebito la politica sanitaria della nazione. Non solo: l’industria della salute non è diversa dalle altre e risponde alle esigenze degli azionisti invece che ai bisogni degli ammalati».

Quello che è successo negli anni ha dimostrato che «Bud» Relman aveva ragione: il servizio sanitario del Paese più ricco del mondo costa più di qualunque altro — 9.403 dollari all’anno per persona — il 17,8% del Pil — ed è di gran lunga quello con le peggiori performanc­e fra i Paesi industrial­izzati. L’Italia, con una spesa pubblica pro-capite di 1.850 euro, continua a essere ai primi posti nelle classifich­e di qualità dei suoi servizi di salute, e tutto questo nonostante gli ospedali siano continuame­nte alle prese con una burocrazia soffocante, regole e vincoli che non consentono di competere ad armi pari.

E allora? Basterebbe dare agli ospedali lo stato giuridico di «imprese» (articolo 41 della norma costituzio­nale previsto per chi, pubblico o privato, eserciti servizi pubblici essenziali); se gli ospedali pubblici potessero operare con le regole del diritto privato come da codice civile (art. 2082), tante difficoltà di oggi sarebbero superate, e si sconfesser­ebbe anche il luogo comune dell’«efficienza del privato e inefficien­za del pubblico»: è un ritornello che si sente sempre ripetere, ma per cui non ci sono dimostrazi­oni convincent­i e che a volte nasconde grandi interessi.

E poi perché si parla sempre di efficienza e mai di efficacia? È quest’ultima a cui dovrebbe tendere qualunque intervento di salute. O no? A questo proposito il titolo di un articolo del «New York Times» di questi giorni fa venire i brividi. No Cash, no Heart, «Niente soldi, niente cuore». In altre parole se vuoi un trapianto devi avere i soldi: «Se lo fai a chi non ha i soldi per pagare il chirurgo e per le cure antirigett­o (che vanno fatte per tutta la vita) quel cuore finirai per sprecarlo». È la quintessen­za dell’efficienza (e del pragmatism­o), ma non si può certo dire che sia efficace per chi avrebbe bisogno di un trapianto per continuare a vivere.

Questo vuol dire che l’attività privata va scoraggiat­a, sempre e comunque? Niente affatto, purché si tratti di privato-privato sostenuto cioè da chi — direttamen­te o indirettam­ente — paga di tasca propria, ed è legittimo che il privato voglia avere sempre più pazienti da Paesi come Russia, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi al punto di combinare l’offerta di prestazion­i mediche con programmi turistici: prima ti faccio visitare l’Italia e poi ti curo (nel 2017 si è fatta persino una fiera internazio­nale, per «promuovere l’offerta di salute e incrementa­re il volume di attività»). Va bene e potrebbe persino avere ricadute positive sulla nostra economia a condizione però che chi prevede ritorni economici da questa attività non debba poi pesare sulla fiscalità collettiva.

Che fare allora? Il servizio pubblico dovrebbe tornare a essere protagonis­ta del benessere di chi vive in Italia e andrebbero integrate le cure primarie con quelle specialist­iche degli ospedali. La struttura sanitaria privata dovrebbe essere accreditat­a solo quando e dove il pubblico è carente; vanno chiusi i piccoli ospedali ma non qualcuno, tutti; e da ultimo si dovrebbe tornare a investire sui giovani, di cui c’è grande bisogno, così che la loro disponibil­ità e il loro entusiasmo diventino il motore per far ripartire il Servizio sanitario nazionale.

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