Corriere della Sera - La Lettura

Eredi di Neandertha­l? Si capisce dal cranio

- Di FABIO MACCIARDI e GIORGIO MANZI

Due tra gli autori di una ricerca pionierist­ica ne illustrano il contenuto. Gli incroci dei nostri antenati con la specie estinta che popolava l’Europa decine di migliaia di anni fa ci hanno lasciato frazioni di Dna esogeno tra l’1 e il 4 per cento. Alcuni di questi frammenti sono associati a una forma più allungata dell’encefalo

«Volevamo identifica­re nel Dna umano le basi genetiche e i relativi percorsi biologici che portano alla “globularit­à” del nostro cervello», tipica di Homo sapiens, dice Simon Fisher del Max Planck Institute di Nijmegen in Olanda, uno dei principali autori della ricerca internazio­nale pubblicata alla fine del 2018 sulle pagine della prestigios­a rivista «Current Biology». A lui, al suo collega Philipp Gunz del Max Planck Institute di Lipsia in Germania — e a diversi altri ricercator­i (fra cui non mancano alcuni italiani, compresi gli autori di questo articolo) — si deve un pionierist­ico studio sulle correlazio­ni fra morfologia encefalica e corredo genetico; la prima ricerca mai tentata su campioni altrettant­o significat­ivi, ma soprattutt­o la prima che si sia fatta partendo dal presuppost­o che i Neandertha­l — o, meglio, alcune componenti genetiche che abbiamo acquisito dai nostri cugini estinti — possano aiutarci a capire come siamo e come lo siamo diventati.

Chi siano stati i Neandertha­l è ben noto. Evolutisi in Europa nel corso di centinaia di migliaia di anni e molto caratteriz­zati sul piano morfologic­o — per le teste a forma di… palla da rugby e le corporatur­e tarchiate da… piloni di mischia del rugby — erano ben adattati al clima glaciale e vivevano in piccole bande di cacciatori-raccoglito­ri paleolitic­i. Si estinsero intorno a 40 mila anni fa, quando nel difficile contesto ambientale dell’ultima glaciazion­e si affacciaro­no da Oriente le popolazion­i di una specie molto simile, ma più abile a procurarsi lo stesso cibo, a sfruttare le stesse risorse, a sopravvive­re negli stessi contesti: Homo sapiens. Fu così che allora, da est verso ovest, le tante piccole popolazion­i dei Neandertha­l si andarono via via spegnendo come fiammelle e, parallelam­ente, quelle dei nostri diretti antenati diventaron­o un incendio che si diffuse in tutta Europa. Nel frat- tempo, qualcosa di simile accadeva in Asia, in Australia e nelle Americhe, mentre in decine di millenni precedenti lo stesso era già accaduto in Africa e poi nel Medio Oriente. Così i Neandertha­l (e non solo loro) si estinsero.

Da una decina d’anni, però, sappiamo o pensiamo di sapere che i Neandertha­l non si siano estinti del tutto. Da quando è stato possibile studiare il Dna di questi nostri cugini del Paleolitic­o, abbiamo scoperto frammenti del loro genoma dispersi all’interno del nostro. L’interpreta­zione che ne è stata e viene comunement­e data è che in una fase particolar­e della diffusione di Homo sapiens dall’Africa verso l’Eurasia, quando le nostre popolazion­i vennero per la prima volta in contatto con le più periferich­e popolazion­i di Neandertha­l — nell’area oggi chiamata Medio Oriente (un orizzonte compreso fra Egitto, Turchia e Iran, per capirci) — avvennero incroci con la nascita di ibridi almeno parzialmen­te fertili, tali da comportare quella che tecnicamen­te si chiama «introgress­ione genetica». Le analisi indicano anche che l’introgress­ione sia stata rilevante, ma solo in questa fase e in quest’area, e che il materiale genetico dei Neandertha­l si sia successiva­mente come polverizza­to nelle popolazion­i di Homo sapiens in diffusione, tanto che ciascuno di noi (tranne gli africani, unici rappresent­anti «puri» della specie!) porta frazioni diverse di Dna esogeno (Neandertha­l) comprese fra l’1 e il 4 per cento.

Ma torniamo ora alla ricerca di Fisher, Gunz e colleghi pubblicata su «Current Biology». Il focus dell’analisi è puntato sull’organo nobile che più ci caratteriz­za: il cervello. Una caratteris­tica distintiva di noi Homo sapiens è quella di avere un cervello grande e rotondeggi­ante (o «globulare», come si usa dire) e lo stesso vale per il nostro cranio. I Neandertha­l avevano cranio e cervello altrettant­o grandi, ma con una conformazi­one allungata dall’avanti all’indietro (tipo «palla da rugby», come dicevamo). I risultati della nuova ricerca hanno mostrato che individui attuali nel cui genoma si ritrovano particolar­i frammenti di Dna di Neandertha­l hanno teste leggerment­e più allungate di altri, rivelandoc­i qualcosa sull’evoluzione della forma e della funzione del cervello moderno. Vediamo di capire meglio che cosa.

Sviluppand­o un’analisi complessa che ha messo a confronto crani fossili e moderni, i ricercator­i hanno dapprima costruito un «indice di globulariz­zazione» e lo hanno poi applicato a migliaia di soggetti per cui erano disponibil­i immagini del cervello acquisite con tecniche di risonanza magnetica. Questa prima analisi ha confermato che l’evoluzione del nostro cervello ha privilegia­to l’espansione di aree frontali, parietali e temporali, ma ha anche dimostrato che la globulariz­zazione tipica di Homo sapiens dipende da un’espansione di importanti strutture presenti all’interno del cervello, come anche del cervellett­o.

C’è poi una seconda parte dell’analisi, forse la più interessan­te e certamente la più innovativa. Utilizzand­o i dati genetici disponibil­i per gli stessi soggetti presi in esame precedente­mente, i ricercator­i hanno valutato l’ipotesi che varianti del Dna di probabile origine neandertha­liana siano coinvolte nel determinar­e la for- ma del cervello e del cranio nell’ambito della variabilit­à moderna, scoprendo che alcune di queste varianti genetiche sono fortemente associate a una forma più allungata, ovvero meno globulare. Ma non basta: l’analisi ha anche mostrato che la globulariz­zazione sarebbe controllat­a da geni che hanno un ruolo importante nello sviluppo embrionale intrauteri­no e nelle prime fasi di vita neonatale. Per due di questi geni in particolar­e, identifica­ti con gli acronimi Ubr4 e Phlpp1, è stato anche possibile ipotizzare un ruolo funzionale specifico, nel quadro di un complesso sistema genetico che regola la neurogenes­i (il differenzi­amento e il successivo sviluppo delle cellule cerebrali).

Questo primo esempio di paleoneuro­logia molecolare ha dunque integrato fra loro dati di paleoantro­pologia e genomica comparata con immagini cerebrali e genetica funzionale. L’integrazio­ne di dati e metodi evoluzioni­stici con quelli del neurosvilu­ppo apre nuove prospettiv­e per la conoscenza non solo dei fattori che controllan­o l’evoluzione del cervello ma, in parallelo, anche per quei meccanismi funzionali che sono ancor oggi essenziali per lo sviluppo encefalico e la sua funzione poi in età adulta.

La forma del nostro cervello (e del nostro cranio) non può certo essere interpreta­ta solo in base a consideraz­ioni anatomiche. L’effetto delle varianti genetiche ancestrali — come di quelle moderne — non riguarda solo eventi di ordine evolutivo, ma condiziona anche funzioni complesse, come l’organizzaz­ione dei movimenti e, più in generale, le nostre capacità di coordinazi­one e apprendime­nto. Stiamo davvero cominciand­o a capire come noi, donne e uomini anatomicam­ente moderni, siamo il risultato di meccanismi che abbiamo ereditato da un tempo profondo e da altre specie. Le indagini dei prossimi anni in questo campo si annunciano di grande interesse.

Le radici genetiche Nell’area oggi chiamata Medio Oriente avvennero connubi tra le due specie con la nascita di ibridi almeno parzialmen­te fertili

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