Corriere della Sera - La Lettura
Gli anni bui dello scrittore terrorista che la letteratura non poté redimere
«Recuperare la grande letteratura del Novecento e rifarla brillare, come merita ed è indispensabile», scrive Marcello Baraghini introducendo il rilancio, nel 2015, di Giuseppe Lo Presti (Alcamo, Trapani, 1958 – Sanremo, Imperia, 1995) per mano della «sua» Stampa Alternativa; ma anche «riproporre alla memoria e alla riflessione la stagione più vivida e sofferta della seconda metà del secolo scorso, quella degli anni Settanta». Il rischio è che, approcciando Lo Presti, si finisca sempre per parlare del terrorista nero, del crimine e del carcere, della malattia, del buio che risucchiò la sua vita e non del romanzo, «che ha questo potere unico di insinuarsi in te e di suscitare un’eco incomprensibile senza precisa origine che si trasforma subito in un dolore vivificante e misterioso»», come scrisse Aldo Busi. Fu lui a ricevere Il cacciatore ricoperto di campanelli presso la redazione di «Epoca», ne rimase colpito, rintracciò l’autore in galera, ne rimase deluso. Non si lasciò sviare: aveva il testo, e l’uomo gli interessava assai meno della sua opera. Firmò l’introduzione per gli Oscar Original Mondadori, collana ideata da Antonio Franchini e Ferruccio Parazzoli; quella con Volevo i pantaloni di Lara Cardella, per intenderci. Fu ancora caso letterario, ma solo per la critica. Era il 1990. Lo Presti non si redense, il romanzo sparì dai radar, divenne oggetto di culto. Quattro anni fa ricomparve con un inedito, Vittorino testa di bue, in una confezione che punta sugli anni di piombo, compensata da un ottimo saggio di Salvatore Mugno a scandagliare anche l’autore Lo Presti, che scrive di tutt’altro. E di chissà che cosa. Perché neanche stavolta abbiamo parlato del testo.