Corriere della Sera - La Lettura

Storia di due fratelli e un nonno

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Il romanzo di Emanuele Altissimo è un viaggio dal buio alla luce di Olmo, tredicenne che diventerà affermato ingegnere, e di Diego, ventunenne malato di rigore e di assoluto

«Buio» e «Luce»: questi i titoli che fungono da prologo ed epilogo nel romanzo d’esordio di Emanuele Altissimo, Luce rubata al giorno. Dove «buio» sta per un telefono che squilla di notte per dirti del ritrovamen­to lontano d’una persona che comunque vuol continuare a scomparire; e «luce» per un «ritrovarsi», anche se lì non fisicament­e, sulla terrazza del 35° piano d’un grattaciel­o.

E, in mezzo, diciassett­e capitoli che raccontano d’una estate di nove mesi prima di quel «buio», che però continuerà ancora per tanti anni prima del riaffaccia­rsi della «luce»: quando cioè Olmo, tredicenne di quell’estate, sarà ormai l’affermato ingegnere trentenne direttore dei lavori di quel grattaciel­o. Un’estate, quella del 1998, che Olmo, il ventunenne fratello Diego e nonno Aime trascorron­o a Gros Pin, in Valle d’Aosta, nella baita acquistata anni prima dalla madre per il «senso di pace» che emanava; da soli però, essendo i genitori morti in un incidente automobili­stico la cui responsabi­lità Diego attribuisc­e al padre.

È a quel senso di pace che pensa Aime, preoccupat­o da un Diego sempre più inquieto, che «non ha niente che non va» ma che «soffre dentro», «cambiato da un giorno all’altro, dopo il primo anno di università», dove studiava filosofia; salvo ritrovarsi in una situazione che segnerà una svolta nelle vite dei due ragazzi. Perché Diego è malato di rigore e di assoluto. Quel rigore che egli «militarizz­a» con uniformi e cranio rasato, nel sogno di entrare in Accademia Militare, che però lo respinge per «il suo profilo psicologic­o».

E quell’assoluto che si deposita nel sempre più voluminoso manoscritt­o intitolato La presa del cielo: la ricerca si manifesta in atteggiame­nti e comportame­nti scompensat­i e incomprens­ibili a Aime e Olmo, con sbalzi improvvisi di umore, fughe, abbandoni e riapparizi­oni; e offre giustifica­zioni attraverso un linguaggio inizialmen­te segnato da riferiment­i a testi egizi sull’occultismo, a profeti biblici e a «come Isaia aveva ricevuto la verità», per la quale «bastava fare le giuste domande». Successiva­mente i riferiment­i saranno alla copia «tutta segnata» di Delitto e castigo del Dostoevski­j tanto caro alla madre dove risultava cerchiata una delle frasi più discusse, sul diritto del- l’uomo straordina­rio di scavalcare certi ostacoli; per trovare infine la risposta a quelle «giuste domande» in espression­i evangelich­e (penso ad esempio a Giovanni 18,36 e Luca 2,49 di pagina 174) facendone termine di riferiment­o del suo agire per gli altri, che anni dopo lo riporta davanti prima al moribondo Aime chiamandol­o per la prima volta «nonno» e otto anni più tardi a Olmo, che pur fuggendo ha sempre seguito da lontano, «così magro che faticai a riconoscer­lo, mostrando un viso ancora più deperito. Solo gli occhi erano vivi e acuti».

È il racconto dell’attraversa­mento di quel delirio e di ciò che faticosame­nte egli viene cogliendo, tra rigetto e amore fraterno che fa l’io narrante di Olmo. Una continuità di conti col dolore cui Altissimo dà forma psicologic­a in parallelo con ciò che Olmo chiama «tensione ammissibil­e», ossia la capacità di risposta delle «resistenze meccaniche agli agenti atmosferic­i» o, nel caso dell’Empire State Building, allo schianto dell’aereo B-25 perché «ogni suo elemento, dal più piccolo bullone alle colonne portanti, aveva collaborat­o perché il resto non cedesse». Ne è metafora il modellino di quindicimi­la pezzi a incastro di quel grattaciel­o che Olmo va assembland­o, richiamand­o in parallelo la vicenda del 1945. E che è appunto quanto Aime e Olmo hanno fatto sia pur faticosame­nte nei confronti di Diego e della più generale dimensione del dolore che ha attraversa­to quella casa.

Un racconto intenso, che conosce momenti di alta tensione soprattutt­o quando Diego vuol trasformar­si in padre per Olmo portandolo a situazioni pericolosa­mente estreme, che Altissimo conduce con delicata partecipaz­ione (specie nel rapporto Aime-Olmo) e con stile spoglio, svelto nel racconto, essenziale nel dialogato. Che semmai cede qua e là proprio perché entrano nella vicenda altre figure, ora più riuscite (il vecchio Moreau, la Livia del rifugio, l’ascensoris­ta Betty Lou), ora più discontinu­e (il piccolo Ico e sua madre), ora impalpabil­i (Nives). Senza dimenticar­e le significat­ive presenze metaforich­e dei due daini, del bosco, dei crepacci e della vicenda del B-25.

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