Corriere della Sera - La Lettura
Date un’isola alle anime Scoprirete che sono donne
Johanna Holmström parte da tre storie vere di tre recluse in un complesso per malati mentali nell’arcipelago di Nagu. Una scrittura empatica svela il legame che unisce l’infanticida, la giovanissima ribelle e l’infermiera coraggiosa
Difficilmente si dimenticherà la scena dell’infanticidio. Commesso da una madre giovane e distrutta dalla stanchezza, ottenebrata dalla disperazione, persa nella propria solitudine, il delitto si consuma in una notte senza luna sulle acque di un fiume nordico nel cuore dell’autunno che, lassù, a quelle latitudini estreme, perfino nella gloria radiosa di una giornata serena non può che far presentire l’oscurità spietata, «densa e annientatrice» dell’inverno imminente.
È allora che Kristina, remando controcorrente verso casa con tutta la fatica del lavoro alla fattoria nelle braccia indolenzite e la sensazione di trascinarsi dietro una zavorra a bordo, come avesse con sé il diavolo stesso nella barca, prende — euforica — la sua decisione. Se alleggerirà l’imbarcazione del suo peso potrà remare con la prua danzante, esulta. E prova già sollievo, prima ancora di abbandonare alla corrente la cesta con il suo piccolino addormentato e il fagotto della bambina, avvolta stretta nella coperta, gli occhi serrati in un fiducioso sonno infantile. La tenerezza infinita del gesto con cui li prende in braccio e lascia andare, la morbidezza dei corpicini caldi che sprofondano nell’acqua scura con un gemito sommesso e uno sciaguattio lieve, subito avvolti dal silenzio, amplificano la ferocia irreparabile della scena e spiazzano, sconvolgono fin dalle prime pagine il lettore che, inorridito, pure prova una compassione immensa per la donna, bisognosa di quel riposo donato così assurdamente ai suoi bambini.
Kristina è pazza. O è intrappolata dal destino in un vicolo cieco da cui non potrà lucidamente escogitare una via di uscita. Il caso di Kristina, remoto nel tempo, avvenuto alla fine dell’Ottocento, e scrutato da una vicinanza che solo l’intelligenza emotiva dell’autrice che ne racconta e la sottigliezza penetrante della sua scrittura potevano stabilire, è analogo a quello di tante pazienti, soprattutto donne, ricoverate nel manicomio di Själö, un antico lebbrosario seicentesco edificato su un isolotto dell’arcipelago scandinavo di Nagu (oggi finlandese) e trasformato da metà Settecento fino agli anni Sessanta del Novecento ne L’isola delle anime, destinata ad accogliere malati mentali che si presumevano incurabili.
Le internate non erano tutte assassine, naturalmente, o apertamente accusate di un crimine dal punto di vista penale. Ognuna di loro però si reggeva rischiosamente in bilico tra la sofferenza e una stranezza disdicevole, tra un’insanabile fragilità e una diversità inaccettabile, tra la malattia — kierkegaardiana — di un’angoscia mortale e l’imputazione di una colpa. Barcollavano su quel crinale prima di cadere inesorabilmente vittime della demonizzazione.
Di casi simili, Johanna Holmström, la narratrice, ne ha esaminati tanti prima di mettersi all’opera. La breve premessa al romanzo e le poche righe di ringraziamento finali fanno intuire quanto studio — ovvero ricerca storica e di archivio — e soprattutto quanta consapevolezza teorica — ovvero piena coscienza del complesso rapporto tra disturbo psichiatrico e disagio esistenziale — presupponga un lavoro letterario così riuscito. Holmström ha esaminato tanti dei casi patologici registrati nelle cartelle cliniche dell’ospedale svedese, e alla fine ne ha scelti — e trasfigurati letterariamente con delicatezza — tre: quello di Kristina; quello di Elli, giovanissima ribelle alle convenzioni del decoro e della famiglia; quello della sciagurata, coraggiosa infermiera Sigrid.
Le loro storie si intrecciano nell’ampio arco di tempo di un secolo, tra gli anni Novanta dell’Ottocento e il 1997. Si incrociano magari solo con uno sguardo: gettato attraverso i corridoi del ricovero dagli occhi imperscrutabili della vegliarda muta da un decennio e posato sull’indomita minorenne. O si saldano con l’intreccio di un legame tenace: di amicizia, di complicità, di confidenza, di profondo riconoscimento reciproco, di amore.
Il tessuto complesso della storia, dall’impianto narrativo possente, è alleggerito e reso soave dalla decorazione di inserti preziosi. Dai ricami raffinati di similitudini originali e inventive: «Era come se il rigido mondo d’acciaio dell’abitudine si fosse fuso e colato dentro di lei e il suo corpo fosse uno stampo di gesso per tutti i dolori della terra». Dalle descrizioni della natura: «Il crepuscolo srotola sui campi il suo panno azzurro e i fiori di lino rilucono nel buio della sera che non si addenserà mai».
Dalle trascrizioni in corsivo dei dialoghi immaginari o dei pensieri silenziosi delle pazienti: «Sono io che ho gettato via la mia vita. Volevo solo riposarmi, lo volevo così profondamente. Dormire una notte senza interruzioni». La bravura dell’autrice (un talento che va oltre la calcolata abilità), finlandese di lingua svedese, neanche quarantenne, sta tutta nell’aver trasformato in arte l’enigma della mente umana, un arcano che appare fuori dal tempo anche se declinato nelle sue variazioni storiche e nel suo diverso impatto sul contesto sociale.
Distante sul mare, guardata con occhi attenti e intelligenti, descritta con la concretezza icastica di una prosa visionaria, la struttura sanitaria di Själö, che vi si allunghi sopra la cupa pruderie della comunità protestante ottocentesca o l’ombra nera della guerra mondiale sul continente, appare emblematica come L’isola delle anime.