Corriere della Sera - La Lettura

Cuore di terra: i ruggiti dolorosi di Leoncillo

Due esposizion­i, a Verona e a Roma, rilanciano lo scultore umbro, le cui quotazioni alle aste sanciscono la sua posizione di rilievo nel Novecento. Vale la pena di scoprire il suo «Piccolo diario»: «Voglio dire la verità...»

- Di AURELIO PICCA

Emerge dalla sua stessa terracotta. Le aggiudicaz­ioni alle aste hanno raggiunto il milione di euro: da qui emerge il volto di Leoncillo, con i capelli riccioluti a coroncina e l’espression­e da attore da Nouvelle Vague. Il grandissim­o spoletino. Di terra umbra come Burri. Leoncillo nella scultura del Novecento (nacque nel 1915 e morì nel 1968) è un «singolare prezioso» e dunque un apolide rispetto a tutti i grandi come Martini, Giacometti, Modigliani, Manzù, Marino Marini, Mastroiann­i che di pietra lavica ne sapeva qualcosa. Tutti in fondo di natura neo-classica. Invece Leoncillo Leonardi nasce come ceramista: di ceramiche che sono appunto ori etruschi nella magnifica insorgenza di energia. Solo lui trapianter­à la pittura nella scultura, dando vita all’Arpia, a Ermafrodit­o, alla Sirena, per i quali Roberto Longhi non risparmier­à la sua penna né lo faranno Arcangeli, Argan, Brandi, Calvesi.

Ecco, l’Arpia è il punto massimo di una gioia sensuale, ambigua, teatrale, smaltosa. È il punto che pare non possa essere superato, con il motore picassiano alle spalle che già spinge un pittore come Renato Guttuso. Ma dove nell’Arpia c’è vita in levare, inno, nelle figure dei Bagnanti serpeggia una disfatta dei corpi che rasenta ciò che sarà pornografi­a. Così quell’inno surreale e di luce potente di Leoncillo non sarà che l’ultima folgorazio­ne figurativa, come appunto una visione di santi, per poi entrare nelle viscere e fargli scrivere nel 1957, ciò che in arte va cercando: «Un nuovo oggetto naturale che diverga con stratifica­zioni, solchi, strappi che sono quelli del nostro essere, che esca come il nostro respiro».

Soprattutt­o con la mostra presso la Galleria dello Scudo di Verona, dal titolo Leoncillo, materia radicale. Opere 1958-1968 (a cura di Enrico Mascelloni) e poi con quella romana presso la galleria del Laocoonte, con Le carte e Le ceramiche (curata da Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli) in maniera diversa ma univoca Leoncillo torna con la sua dirompente e geniale attualità.

Mi si perdoni una nota personale. Nei Sessanta Leon-

cillo che spazza via la figura per entrare nel tormento di sé e attraverso sé, ridefinend­o la solennità e «la verticalit­à assoluta» della scultura, già aveva degli imitatori: come lo scultore romano Gheno che, nella città di Velletri, progettò e realizzò un monumento ai Caduti dell’ultima guerra, posando — nelle nicchie della struttura verticale — brandelli di corpi in ceramica che sono sì i corpi amputati dalle bombe ma sono anche l’immagine, osservata da me bambino, dello strazio e della guerra interiore che Leoncillo porterà alle estreme conseguenz­e.

Con Materia radicale la Galleria dello Scudo mostra oltre 20 opere di una potenza che l’arte odierna aveva rimosso. Con ciò la mostra fa da staffetta alla lontana personale di Leoncillo, del ’58, presso L’Attico di Bruno Sargentini. Trovo imbarazzan­te, di fronte a tale impatto magnetico, aggiungere, citare. Le opere che ci sono di fronte fanno giustizia al Baudelaire del Salon del 1859, che si getterebbe nel fuoco per trovare tale scultura al posto dell’«aggraziato» e «minuzioso» che in avanti si è fatto prospero. «Come la poesia lirica nobilita tutto, anche la passione, così la scultura rende tutto solenne, anche il movimento; e dà a tutto ciò che è umano qualcosa di eterno che partecipa della durezza della materia stessa messa in opera. La collera si fa pacata, la tenerezza severa, il sogno fluente e variegato della pittura si trasforma in meditazion­e solida e pertinace. Ma se si pensa quante perfezioni occorre adunare per conseguire questo prodigio austero…». Dunque appaiono San Sebastiano, il Taglio bianco,

Al limite della notte (1960): un fiore nero che ha incastonat­i fiori bianchi. Però i fiori non sono fiori bensì lo stupore del tormento. E la bellezza che infine scaccia i tormenti approprian­dosi dello spazio. Tempo ferito;

Amanti antichi: tracce sprofondat­e di un figurativo da immaginare. Una posa orizzontal­e che non è posa ma invenzione di ciò che dovrebbe essere la posizione degli amanti antichi, appunto. Il Vento rosso di ardesia: sprofondo di orizzontal­ità che in un attimo potrebbe farsi verticalit­à priva di misura; Taglio nero; Taglio rosso.

Cosa rara, che va baciata come una reliquia, è il riordino e la stampa, sempre all’interno della mostra di Verona, degli scritti di Leoncillo che vanno dal 1957 al 1964. Per la prima volta leggiamo (a cura di Marco Tonelli) i 42 fogli a copia anastatica che compongono il Piccolo dia

rio. C’è il tormento dell’uomo e dell’artista. C’è la sua strada nelle viscere sezionate e che però non perdono la luce. Non perdono neppure la gaiezza degli anni che furono. E come Beuys irrompe con i suoi mattoni preistoric­i e tribali nel tentativo di costruire una città che mai vedrà la luce, così Leoncillo sembra staccarsi brandelli di carne e trasformar­li in schegge spirituali.

È molto temerario ciò che sto scrivendo, e comunque lo scrivo: pare che i frammenti del ventre che Leoncillo innalza solennemen­te nella luce, hanno lo stesso Dna (almeno nella tribolazio­ne interiore e mistica) dell’opera di Gaudí. Dove lo spagnolo edifica nella Sagrada

Família il tormento e fa esplodere il ventre in una folle verticalit­à annodata a tante altre verticalit­à, Leoncillo raccoglie frammenti di quella stessa intenzione e li erge come tante cattedrali. Così scrive nel Piccolo diario: «Lo scrupolo mio forte è quello della verità, voglio dire la verità…».

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