Corriere della Sera - La Lettura

Michelange­lo scalpella il marmo che non serve

- Di ARTURO CARLO QUINTAVALL­E

Non finito, per Michelange­lo, vuol dire incompiuto come nella tradizione accademica? Prendiamo la Pietà Rondanini (oggi conservata al Castello Sforzesco di Milano), che si data fra 1552 e 1564, un pezzo al quale lo scultore lavora fino a pochi giorni dalla morte. L’opera reca tracce evidenti di due fasi diverse: una prima scultura, più grande, della quale resta ancora il braccio staccato del Cristo e nella quale il volto della Madonna era forse rivolto verso l’alto, e una seconda, più piccola, dove la composizio­ne riutilizza le gambe semiflesse del Cristo giunte allo stadio della politura mentre tutto il resto è abbozzato, trattato a scalpello e gradina.

Altro caso, i Prigioni, parti del monumento a Papa Giulio II, schiavi legati che escono dalla roccia, due quasi del tutto rifiniti oggi al Louvre, gli altri alla Galleria dell’Accademia di Firenze che, apparentem­ente incompleti, mostrano lo sforzo della Forma di uscire dalla pietra.

Michelange­lo non ha avuto il tempo di concludere le opere o c’è una spiegazion­e diversa? In un sonetto del 1544 scrive: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto/ c’un marmo solo in sé non circoscriv­a/ col suo superchio, e solo a quello arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto». Dunque nella pietra si scopre l’Assoluto, come suggeriva il neoplatoni­co Marsilio Ficino. Vendere un’opera per noi non finita, donarla come farà l’artista con la Pietà, è proporre la creazione che irrompe fuori della materia.

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