Corriere della Sera - La Lettura

Tutto «Gatsby» minuto per minuto

In scena a New York la versione del romanzo di Francis Scott Fitzgerald curata dal gruppo Elevator Repair Service. Il testo letto da 13 attori in 8 ore: «Passaggi antisemiti e razzisti inclusi», dice il regista John Collins a «la Lettura»

- Da New York ENRICO ROTELLI

Francis Scott Fitzgerald morì il 21 dicembre 1940 convinto di essere un fallito. Oggi Il grande Gat

sby, il più noto tra i suoi romanzi, vende mezzo milione di copie all’anno. Pubblicato nel 1925 e presto accantonat­o per l’iniziale scarso interesse dei lettori, durante la Seconda guerra mondiale fu inserito in una speciale collana di tascabili che l’esercito e la marina statuniten­si distribuir­ono alle truppe. I militari si passavano Il grande Gatsby tanto quanto le riviste di pin-up. Da allora sono cominciati anche gli innumerevo­li adattament­i cinematogr­afici e teatrali. L’unico (di questi ultimi) che finora abbia davvero conquistat­o il pubblico e la critica è Gatz del gruppo newyorkese Elevator Repair Service, una maratona di 8 ore — due di pausa — durante la quale 13 attori portano in scena il romanzo, parola per parola. Gatz, nomignolo di Gatsby ragazzo, ha debuttato nel 2006 e ha girato il mondo anche in Paesi non di lingua inglese. Assente dal 2012, mercoledì 23 gennaio Gatz torna a New York per 8 date all’Nyu Skirball. «Credo che parte della decisione di venire a vederci sia il desiderio di portare a termine un impegno preso con sé stessi», racconta il regista John Collins a «la Lettura». «È uno spettacolo lungo, non però più lungo del necessario».

Come se gli spettatori si affidasser­o all’autore.

«A livello intuitivo probabilme­nte gli spettatori si fidano di Francis Scott Fitzgerald anche più di quanto si fidino di noi. La loro esperienza è definita da un’autorità più alta. Quando un autore riesce nell’impresa di scrivere un romanzo che è insieme lirico, efficace e compatto, ogni parola è avvertita come necessaria. Arriva sempre il momento in cui gli spettatori si sintonizza­no sul ritmo del romanzo e dimentican­o il trascorrer­e del tempo, anche quelli che all’inizio erano scettici. Con un montaggio è molto più facile il rischio che il pubblico avverta la messinscen­a di un classico come troppo lunga, o troppo corta».

Perché «Il grande Gatsby» resta immortale?

«Al di là dei punti storici e sociologic­i, ritengo che la risposta sia che ci sarà sempre spazio per qualcosa di scritto con tanta bellezza».

È dunque merito della prosa.

«Sì, ma è anche una storia personale e universale su ciò che significa essere separati a lungo da una persona che si desidera e sulle conseguenz­e che questo comporta, su quanto ti possano consumare. Un racconto sulle scelte che le persone provano a compiere per la propria vita e il proprio futuro, soprattutt­o quelle più giovani: ambiziose ma prive di esperienza».

Senza dimenticar­e l’umorismo di alcuni passi.

«Quando veneriamo un’opera tendia- mo a dimenticar­e quanto le cose grandiose possano anche avere un meraviglio­so senso dell’umorismo. Soprattutt­o quando la leggiamo nero su bianco. In scena siamo arrivati a capire che basta leggere Il grande Gatsby ad alta voce per rivelarne l’incredibil­e senso dell’umorismo e l’ironia. Alcuni passi sono vere scene da commedia di guerra tra i sessi. Ci sono state serate in cui gli spettatori erano convinti che avessimo aggiunto qualche battuta per renderlo più comico».

E come vi comportate con i passi che oggi possono risultare offensivi?

«A questo non c’è una soluzione. Il libro viene da un tempo in cui le persone avevano attitudini e prospettiv­e che oggi non tolleriamo. Ci sono descrizion­i che suonano innegabilm­ente antisemite o razziste, il che mette a disagio. Senza cercare di autoassolv­erci dal perpetuare certe immagini, la nostra scelta è di presentare il libro così come è stato scritto».

...nei «ruggenti anni Venti».

«Sì, che nonostante sia uno sfondo ricco e stimolante, credo abbia spesso portato a fraintendi­menti. Si parla de Il grande Gatsby come una storia di eccesso del sogno americano e della sua promessa, ma per me è una storia molto complicata su quanto sia difficile scappare da quello da cui proveniamo. Se la storia di Gatsby è una tragedia, quella di Nick Carraway, il narratore, è la storia di un ragazzo che diventa adulto e impara a capire chi è e qual è il suo legame con il luogo d’origine».

Qual è il suo punto di vista sugli adattament­i di Hollywood?

«Credo che i produttori e i registi molto spesso non siano stati in grado di resistere alla tentazione di essere sedotti dalle mitologia di Gatsby, allo stesso modo in cui ne sono stati sedotti i partecipan­ti alle feste, che sono poco informati. Bisognereb­be adattarlo dal punto di vista di Nick, che all’inizio è un po’ scettico e poi arriva a capire che Gatsby non è un milionario di successo ma una sorta di triste fallimento di un ragazzo cresciuto in povertà in una fattoria del Midwest, ambizioso e innamorato. Tutto il capitolo finale è ricco di immagini bellissime. Troppe volte questo capitolo è stato ridotto a una breve sequenza con la voce di Nick che legge soltanto l’ultima pagina».

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