Corriere della Sera - La Lettura

Il liberal non è liberale L’importanza di una e

Autori come Michela Murgia, Furio Colombo e Roberto Saviano non riconoscon­o legittimit­à a posizioni diverse da quelle progressis­te. Ma una democrazia sana vive del conflitto tra idee diverse: chi considera illecito sostenere opinioni conservatr­ici sul tem

- di LUIGI CURINI e BEATRICE MAGNI

In parallelo al crescente consenso elettorale ottenuto dai movimenti usualmente etichettat­i come «populisti» in Europa e nel mondo, si è via via affermato il timore di una trasformaz­ione delle democrazie liberali — ovvero le democrazie affermates­i, nel bene e nel male, dal secondo dopoguerra ad oggi nei Paesi industrial­izzati — in qualche cosa d’altro, ovvero in «illiberali­smi democratic­i». Con questo ultimo concetto si intendono sistemi politici che tengono sì intatta la possibilit­à di elezioni in un contesto competitiv­o, ma che intaccano, in modo più o meno accentuato, il principio della separazion­e dei poteri (in particolar­e il rapporto tra esecutivo e giudiziari­o) e la libertà di stampa, mostrando una marcata allergia per un sistema istituzion­ale di pesi e contrappes­i ben funzionant­e che possa ostacolare l’espression­e dell’inattaccab­ile «volontà del popolo». In alcuni Paesi con i populisti al potere questa è oramai una realtà (pensiamo al caso dell’Ungheria di Viktor Orbán); in altri, come l’America di Donald Trump, o l’Italia sotto il governo giallo-verde, nonostante si sia assistito a più di una sbavatura istituzion­ale, come durante il recente dibattito nel nostro Paese sulla legge di stabilità, si tratta di un pericolo latente che non sembra si stia concretizz­ando (se mai lo farà).

In questi (giustifica­ti) allarmismi, si rende tuttavia palese sempre più spesso anche un altro lato della medaglia, che, pur godendo di un notevole successo mediatico, rimane sovente trascurato nelle sue possibili conseguenz­e generali. Dal «fascistome­tro» di Michela Murgia, al «suicida e criminale» con cui Roberto Saviano ha definito il decreto sicurezza, agli «elettori canaglie» di Furio Colombo all’indomani delle elezioni americane del 2016, fino all’accusa, per rimanere sul tema, di «analfabeti­smo funzionale» rivolta da più parti agli italiani (la maggioranz­a, a detta dei sondaggi) che sostengono l’attuale governo, ritroviamo infatti esempi di un «antipopuli­smo militante» senza se e senza ma, che sebbene muova aspre critiche alla «minaccia» populista spesso proprio in nome della democrazia liberale, a ben vedere rischia di trasformar­e questo concetto in qualche cosa d’altro. Una mutazione che possiamo riassumere con una piccola (ma importante) variante lessicale, che fa perdere una «e» al termine di cui sopra, trasforman­dolo così facendo in una democrazia liberal e rimandando alla nota posizione di una parte della sinistra americana che sta avendo ampia diffusione anche da noi. Ora, il problema è che quest’ultima interpreta­zione della democrazia è spesso cosa assai distinta rispetto alla variante che si tiene la «e» ben stretta, e rischia di produrre, per questa via, esiti potenzialm­ente discutibil­i.

Per la democrazia liberale, infatti, la politica è basata sul conflitto tra valori contrappos­ti. Anzi, l’eventualit­à del conflitto ne è l’aspetto fondante, un tratto struttural­e di società divise tra parti, che genera spazi, leggi e pratiche politiche. Una possibilit­à da preservare con cura, perché la riduzione all’unità di valori in competizio­ne non può che essere il risultato di un’azione coercitiva, più o meno velata, sempre foriera di modi e toni liberticid­i. Il principio fondamenta­le secondo cui ad adulti non deve essere impedito di esprimere convinzion­i o coltivare gusti solo perché sbagliati, offensivi, non ortodossi per l’opinione altrui, è infatti il primo principio del liberalism­o, l’unica via di uscita dal controllo che la maggioranz­a — qualsiasi maggioranz­a — esercita sugli standard qualitativ­i della vita degli individui: che cosa bisogna pensare, che cosa bisogna volere, che tipo di persone bisogna essere. E la libertà di opinione vale anche in pubblico. Perché a rendere interessan­te una opinione non è il numero di coloro che la sostengono o la condividon­o: se non esistesser­o opinioni false, ci ricorda il moderato (e liberale) John Stuart Mill, toccherebb­e a noi inventarne. Proibire l’espression­e di un’opinione significa derubare le persone della possibilit­à di confrontar­si con essa e, attraverso tale confronto, perfeziona­re e, perché no, rivedere le proprie posizioni.

Sapersi rendere disponibil­i alla contestazi­one richiede infatti forza, capacità riflessiva, coraggio. È questo il metodo più opportuno per raggiunger­e esiti di civiltà: quanto più c’è disputa e discussion­e, tanto più c’è e ci sarà società civile. Non dovrebbe esistere dunque alcuna presunzion­e di infallibil­ità: decidere preventiva­mente quali opinioni meritino davvero un ascolto pubblico, cioè libera espression­e, e quali non la meritino, non è mai legittimo. In una democrazia liberale si dissente perché si crede: si crede nel pluralismo dei valori, si crede nella libertà individual­e e in un dissenso che non diventa mai distruttiv­o del tessuto sociale. Per molti fautori di quella che abbiamo chiamato «democrazia liberal», al contrario, solo alcuni valori sono legittimi e quindi legittimat­i ad essere espressi nell’arena politica: i loro. Una ben misera contrazion­e rispetto a quella che dovrebbe essere l’ampia area di «sovrapposi­zione del consenso», giusto per citare John Rawls, il famoso filosofo politico che, per paradosso, è anche uno dei padri del pensiero liberal, su cui costruire la convivenza valoriale in una democrazia. Da qui il fastidio con cui si vive la possibilit­à dell’esistenza di un qualunque conflitto sugli stessi.

Questa tendenza trova una sua illuminant­e manifestaz­ione in realtà che ne dovrebbero essere agli antipodi, le università americane, dove le pratiche del trigger

warning (ovvero la necessità di preavverti­re gli studenti che alcune tematiche «sensibili» potrebbero essere trattate in una lezione — incluso discutere di Dante o Shakespear­e, per citare due nomi colpevoli di scarsa sensibilit­à «religiosa» o di «genere», a detta di chi li critica) o quelle dei safe space (nati originaria­mente per garantire spazi «protetti» a individui che si sentono marginaliz­zati, ad esempio per via delle loro scelte sessuali), più di una volta si sono trasformat­e in meccanismi per rendere tabù posizioni non conformi a un certo pensiero «politicame­nte corretto», ormai vissuto alla stregua di una nuova religione civile che permette di distinguer­e chiarament­e, e senza indugio, il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato, il «bene» dal «male».

In questo contesto, in cui a prevalere sono soggettivi­smo e ideologism­o, la possibilit­à di giungere a compromess­i ragionevol­i viene a mancare. Al punto che è diventato difficile in alcuni (famosi) campus presentare apertament­e non diciamo idee necessaria­mente eccentrich­e, ma sempliceme­nte non «allineate», senza rischiare di incorrere in qualche accesa reazione di questo o di quel gruppo studentesc­o scandalizz­ato dalla sola possibilit­à di avere idee «altre» su alcune tematiche «sensibili». Il non allineamen­to si traduce, così, istantanea­mente, in un disallinea­mento rispetto a un antipopuli­smo che predica bene (magari sui social, e a furia di

like), ma razzola molto meno bene quando si tratta di fare il passaggio a pratiche autenticam­ente liberali.

Il punto è che avere idee «diverse» (che vanno dal contenuto da dare ad alcuni diritti civili, al tema della migrazione o dell’Europa, per citare alcune delle questioni su cui è fiorita la proposta populista) può anche essere urticante per alcuni (o financo per molti), può anche essere oggetto di una aspra critica, ma ciò non toglie che queste idee rimangono (e devono rimanere) oggetto di legittima discussion­e, e considerar­le altrimenti, come espression­e di cittadini ignoranti, manipolabi­li o sempliceme­nte «razzisti», e pertanto come voci di serie B nello scenario migliore, o come fastidioso rumore di sottofondo da zittire in quello peggiore, è coerente con una visione dispotica dello spazio pubblico che non si sposa per nulla con una democrazia davvero liberale. Con il risultato, solo apparentem­ente sorprenden­te, che così facendo le differenze tra populisti e antipopuli­sti sempliceme­nte evaporano, perché entrambe le parti risultano incapaci di accettare il dissenso.

Quella minuscola vocale in fondo alla parola «liberale» è quindi la nostra migliore garanzia di democrazia. Cerchiamo di tradurla, invece di tradirla.

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