Corriere della Sera - La Lettura

La morale identitari­a disumanizz­a i migranti

- di LUIGI MANCONI

Leader come Matteo Salvini, giornalist­i come Maurizio Belpietro, sovraniste come Francesca Totolo rimuovono l’imperativo di «salvare tutti i corpi» richiamato da Albert Camus. La smania di mostrarsi «cattivi» li induce a considerar­e inevitabil­e sacrificar­e vite secondo una logica particolar­istica e rattrappit­a. Rimuovono un dato decisivo: non può esserci etica che non sia universale

Alcune settimane fa, nel corso di un intervento televisivo sull’immigrazio­ne, mi è sembrato che Massimo Cacciari si commuovess­e fino a piangere. Si è trattato, probabilme­nte, di un mio abbaglio e chiedo scusa innanzitut­to all’interessat­o ma — vera o falsa che sia — trovo credibile la circostanz­a. Il fatto mi ha colpito. Da tempo, da circa metà della mia vita, sono impegnato a superare certe rappresent­azioni puerili e certe letture per un verso emotive, per l’altro manichee, che sono state un elemento significat­ivo della mia concezione della politica. Per esempio, la tendenza ad attribuire all’avversario una sorta di deficit morale. È proprio della lotta politica fare dell’antagonist­a l’oggetto della massima riprovazio­ne etica: muovere dal disprezzo e dalla delegittim­azione consente di indirizzar­e contro di esso il massimo di ostilità e quindi di mobilitazi­one. Avendo riconosciu­to, dolorosame­nte, come questa «eticizzazi­one» del conflitto avesse contribuit­o alla degradazio­ne della politica e del suo linguaggio e avesse incentivat­o il ricorso alla violenza fino ad attenuare la condanna verso il terrorismo, ci si è trovati costretti a correre ai ripari precipitos­amente. Mi riferisco, va da sé, ad alcune componenti dell’area della sinistra. Ne è conseguito, in quelle componenti, un processo di secolarizz­azione dell’attività pubblica che, rovesciand­o il precedente paradigma, ha portato a sostituire alla figura del nemico quella dell’avversario e a derubricar­e i più radicali antagonism­i a «differenti opinioni». Si è avviato, così, un percorso di laicizzazi­one della politica, che va considerat­o come positivo. Eppure. Eppure si sentono e si vedono, di questi tempi, parole e gesti, pulsioni e sentimenti che sembrano collocare chi li esprime fuori da un perimetro di idee e valori condivisi. Perché questo accada è necessario un fatto traumatico. Per esempio, il manifestar­si — nello scenario attuale e domestico, qui e ora — di una contraddiz­ione radicale come quella vita/morte. La stessa che Albert Camus, nel 1946, indicò con queste parole: «Non tutto si può salvare», e dunque bisogna scegliere di salvare «almeno i corpi». Non una nuova profezia o un’ideologia alternativ­a, bensì un patto tra gli individui che non vogliono essere «né vittime né carnefici». Attenzione: «salvare i corpi» è, in realtà, l’obiettivo rivendicat­o da tutti. Anche coloro che vogliono la chiusura dei porti e il respingime­nto alle frontiere dicono di volerlo perché così, e solo così, sarebbe possibile ridurre il numero dei morti. Dunque, l’autenticit­à di quell’asserita determinaz­ione a «salvare» non è agevolment­e verificabi­le — a meno di saper sondare gli angoli più riposti della coscienza individual­e. D’altra parte, io non so che cosa abbia in fondo al cuore Matteo Salvini (e francament­e non me ne importa un fico secco), ma se egli si fa leader di un movimento di intolleran­za etnica, è fatale (a meno di non attribuirg­li una dissociazi­one psicotica) che «diventi» intolleran­te. In altre parole, per sostenere quella politica di discrimina­zione, Salvini è «costretto» a organizzar­e i suoi sentimenti e le sue emozioni, oltre che i gesti e le parole, in senso discrimina­torio.

Non so chi sia Francesca Totolo e che mestiere faccia e, tantomeno, conosco cosa abbia in fondo al cuore (e francament­e non me ne importa un fico secco). Di lei so solo che è l’autrice del seguente post: «Josefa con le un- ghie perfette laccate di rosso dopo 48 ore in mare». Come è noto, in pochi minuti, il post si rivelò un falso indecente e l’autrice dovette goffamente ridimensio­narne il senso. Resta che, se si coltiva l’attitudine a trattare in maniera tanto sprezzante la sofferenza altrui, una qualche alterazion­e della personalit­à è altamente probabile.

Insomma, non so se Salvini, Totolo e l’infinita schiera dei coreuti del Nuovo Conformism­o Nazionale siano davvero cattivi, ma so che mostrarsi costanteme­nte tali e parlare e gesticolar­e in tal modo, condiziona­ndo in qualche misura la loro sfera emotiva, li induce a considerar­e inevitabil­e, e addirittur­a giusto, non salvare tutti i corpi. Se i corpi da salvare sono troppi, si accetta la loro selezione. Il che è la premessa della disumanizz­azione.

Chi non l’accetta si assume tutto il peso di una scelta tragica, e dunque può piangerne. Chi, al contrario, accetta la selezione-disumanizz­azione perché giusta — in quanto «sono troppi» o «sono tutti delinquent­i» — deride come buonista chi piange. Difficilis­simo — nonostante la consapevol­ezza di precipitar­e ancora nel vizio capitale della superbia — non essere tentati da un senso di superiorit­à morale. Quando, per esempio, un direttore di giornale tanto accorto quanto callido, Maurizio Belpietro, rifiuta ostentatam­ente di rispondere alla domanda, reiterata, sul destino dei naufraghi «restituiti» ai centri di detenzione libici, viene da chiedersi il perché di quella voluttuosa automortif­icazione intellettu­ale. E viene da pensare che il tema superiorit­à/inferiorit­à debba interpella­re innanzitut­to coloro che, negando l’esistenza di una «questione morale», rivendican­o con improntitu­dine la propria «inferiorit­à».

È ovvio che quanto fin qui detto non assolve e non condanna alcuno in maniera netta e definitiva. Innanzitut­to perché chi scrive non ha alcun titolo né alcuna autorità etica per giudicare altri se non sé stesso. Dunque, la valutazion­e morale è, anch’essa, oggetto del contendere e materia del conflitto, anche politico.

Ma proprio per questa ragione gli atti politici che hanno implicazio­ni morali (perché producono sofferenze, richiamano diritti fondamenta­li, mettono in gioco la vita umana) vanno considerat­i anche con criteri non-politici. Criteri universali che valgono a prescinder­e da qualsivogl­ia consideraz­ione contingent­e e da qualsivogl­ia criterio utilitaris­tico. È questo che traccia un discrimine nitido tra opzioni alternativ­e e inconcilia­bili. Oggi sembra prevalere, se non trionfare, una politica che si restringe e si rattrappis­ce. Una politica che rifiuta — qualifican­dola come capriccio delle élite e perversion­e dei radical chic — ogni dimensione che non sia quella del «particular­e», del corporativ­o, dell’identitari­o. E che su questo pretende di fondare una peculiare moralità, ignorando che non può esservi morale che non sia universale. Ecco perché chi non piange i morti nel Mediterran­eo sentendoli come propri, si condanna a una involuzion­e angusta e arida. È ovvio che, quanto detto, non si riferisce a una contraddiz­ione destinata a tagliare nettamente le culture e, tanto meno, a qualificar­e la frattura destra-sinistra. Qui la responsabi­lità è, e non può che essere, tutta soggettiva e individual­e.

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