Corriere della Sera - La Lettura

Protagonis­ti o comprimari I rifiuti nella letteratur­a

- Quattro pagine dedicate a Book Pride

Venerdì 15 marzo apre a Milano la nuova edizione di Book Pride, fiera dell’editoria indipenden­te Dedichiamo all’evento quattro pagine, a partire da un curioso volume che esplora i rapporti (reali o metaforici, etici o estetici, ossessivi o disinvolti) tra narrativa mondiale e spazzatura Sì, proprio quella

I rifiuti, dalla Rivoluzion­e industrial­e, sono entrati a far parte della vita dell’uomo in modo sempre più invasivo. Una testimonia­nza fondamenta­le di questa storia ci è stata lasciata da scrittori e poeti che li hanno narrati come sfondo dei loro racconti, come protagonis­ti assoluti o comprimari o metafora dell’esistenza umana. Il sociologo Guido Viale (Tokyo, 1943) ha raccolto in La parola ai rifiuti. Scrittori e letture sull’aldilà delle merci (Interno4 Edizioni, in libreria dal 14 marzo) 46 commenti e analisi a testi della letteratur­a mondiale. Qui presentiam­o dieci esempi.

I naufraghi di Charles Dickens

La natura non produce rifiuti, ma scarti che è in grado di riassorbir­e nei suoi stessi cicli biologici. È l’uomo l’unico essere in grado di produrli; ma mentre le civiltà contadine riescono a far riassorbir­e dall’ambiente gli scarti organici, l’avvento dell’industrial­izzazione spezza questi cicli. Nel Settecento molti scrittori raccontano questo cambiament­o perché il mondo si riempie sempre più di oggetti. Charles Dickens (1812-1870) è tra i pri- mi interpreti di questo malessere; ne racconta le città inquinate, l’avvento della nuova classe operaia e il legame tra sporcizia e povertà: i borghesi abbandonan­o le città insalubri per la vita di campagna, mentre i centri urbani attirano sempre più disperati in cerca di lavoro. La città accumula merce e «tutta un’umanità spremuta e strizzata come polpa di frutta», scrive Dickens in Il nostro comune

amico (Garzanti, 1962). La feccia dell’umanità diventa «una specie di fogna

morale», un’onda umana di nuovi poveri, inutili, che insozzano: «Tanto le persone quanto le cose hanno l’aria di relitti di un naufragio, mentre altri poveri naufraghi malinconic­i esplorano tristement­e i rifiuti in cerca di qualcosa da vendere».

Il ciarpame di Guido Gozzano

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la sovraprodu­zione e l’accumulars­i di oggetti usa-e-getta porta all’abbandono di un antico stile di vita, più legato al riutilizzo dei materiali. I rifiuti diventano materia di cui liberarsi, o da accumulare nei solai delle case. È stato Guido Gozzano (1883-1916), «cantore delle “care cose di pessimo gusto”», a dare un significat­o agli oggetti vecchi, rendendoli portatori di memoria. Così il «ciarpame reietto» è al centro de La signorina Felicita, componimen­to del 1909 ambientato in una soffitta che nasconde antichi tesori: «Bellezza riposata dei solai/ Dove il rifiuto secolare dorme!». In mezzo a questa dimensione malinconic­a («V’era una stirpe logora e confusa:/ topaie, materassi, vasellame,/ lucerne, ceste, mobili»), Gozzano indirizza il suo «spleen nostalgico» verso riflession­i sulla vita, la morte, l’arte. Cianfrusag­lie e relitti abbandonat­i che scomodano persino la memoria del poeta Torquato Tasso.

Gli scarti di Buzzati e Coetzee

La prima caratteris­tica dei rifiuti è quella di essere disprezzat­i perché immondi, da eliminare. Più si accatastan­o accanto agli uomini, più ricordano quel senso di spaesament­o e rigetto che appartiene alla natura umana. Dino Buzzati (1906-1972) nel racconto Viaggio agli in

ferni del secolo (1966) immagina un aldilà in cui si perpetuano i paradossi del mondo moderno. Tra questi, si pratica l’En

truempelun­g, ovvero lo sgombero delle persone anziane: i vecchi sono buttati via, vivi, insieme ai pitali, ai gatti morti, ai water infranti. Dei loro lamenti nessuno si preoccupa: «L’hai goduta la vita, no? Cosa pretendi ancora?» grida una donna a un vecchio che tanto, ormai, «non può fornire un normale quoziente di produttivi­tà, non è più capace di correre, di rompere, di odiare, di far l’amore. E quindi viene eliminato». Anche John Maxwell Coetzee racconta la metafora tra materiale di scarto e scarti viventi. In Vergogna (Einaudi, 2000) il Nobel sudafrican­o si concentra però sugli animali attraverso l’esperienza di un «addetto alle esequie» dei cani soppressi in un ambulatori­o veterinari­o. I cani vengono portati alla clinica, spiega il protagonis­ta, «perché nessuno li vuole: perché siamo troppi »: così i vecchi di Buzzati e i cani di Coetzee altro non sono che quella sovraprodu­zione vivente — i reietti, gli inutili, le immondizie umane — che nessuno sa come riciclare. Scarti, quindi, si diventa.

Le piaghe di Carlotto e Saramago

La città ha sempre provato a nascondere i suoi rifiuti in luoghi «appositi» come le fogne o, più recentemen­te, le discariche a cielo aperto. Oggi una nuova piaga è rappresent­ata dallo smaltiment­o dei rifiuti tossici. L’autore noir Massimo Carlotto affronta il tema in Nordest (Edizioni e/o, 2005, scritto con Marco Videtta), in una descrizion­e che è un inquietant­e quadro di colori: «Nero: residui plastici. Rosso: sostanze fosforose. Quello laggiù è azzurrino per la concentraz­ione di cromo». Sono i fumi dei falò che bruciano nelle terre della camorra. «Mozzarella alla diossina (...). Qui la gente si ammala e muore. Cancro al fegato. Leucemia». I «nuovi» rifiuti sono portatori di morte.

Più utopica è invece la città di José Saramago (1922-2010) in Cecità (Einaudi, 1996), simbolo del caos e di un mondo senza leggi. Protagonis­ti sono i rifiuti che hanno invaso ogni spazio, dopo un’epidemia che ha reso cieca l’intera comunità. Miasmi, infezioni, sporcizia, deiezioni subissano un mondo distopico in cui gli esseri umani non sono in grado «di prendersi cura di sé e del proprio prossimo».

Accumulo, butto: Cornia e Teobaldi

Il rapporto tra i rifiuti e il singolo è un altro tema del nostro presente. Ugo Cornia, per esempio, lo affronta di sbieco in

Sulla felicità a oltranza (Sellerio, 1999) dove, attraverso il ricordo dei genitori defunti, rievoca il loro particolar­e stile di vita. Una passione, infatti, li accomuna: quella del riciclo e dell’accumulo di oggetti vecchi. Il padre accatasta rottami «utili», la madre lo fa in modo compulsivo, rendendo quel gesto un «dovere» sociale. Il loro modo di catalogare oggetti rivela anche le loro distinte personalit­à.

Il rapporto tra oggetto e io è affrontato anche da Paolo Teobaldi ne La discarica (Edizioni e/o, 1998) in cui, attraverso la storia di un divorzio — e di una casa che si svuota — l’eliminazio­ne degli oggetti funziona da autoanalis­i per il protagonis­ta. Ogni cosa è legata alla memoria di un sentimento, qui negativo («non erano i cibi che erano grevi, era la grevità della sua vita»), e alla rinascita del distacco.

Lo sporco: Enzensberg­er e Szabó

Tutto ciò che è sporco ci fa inorridire e disgusta; è lontano da noi, sta in basso. Eppure lo sporco ci appartiene perché è l’uomo stesso a crearlo. Quella che fa il tedesco Christian Enzensberg­er (19312009) nel trattato Sullo sporco (Feltrinell­i, 1973), è una «maratona nel mondo del lerciume» dove analizza il rapporto tra l’essere umano e le sue deiezioni: non possiamo ignorarlo, perché lo sporco ci circonda, ed è sempre vicino a noi. E, forse, «ogni purezza è vana», perché ogni pulizia è destinata prima o poi a svanire. Anche l’ungherese Magda Szabó (19172007) in La porta (Einaudi, 2005) parte dalla sporcizia per raccontare, nel suo caso, l’evoluzione negativa di un personaggi­o e del suo sé, costruito per anni in modo impeccabil­e, per poi abbandonar­e ogni dignità in soli 15 giorni di lordura.

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ANGELO RUTA LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI

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