Corriere della Sera - La Lettura

L’auditorium e la banca dei suoni più fragili

Da trent’anni David Monacchi esplora il pianeta per registrare le voci della natura che rischia di scomparire: foreste equatorial­i, montagne, savane... Il 30 aprile presenterà a Pesaro la Sonosfera: un luogo – di volta in volta ziggurat o cavea – per asco

- Di V. TRIONE e H. FAILONI

L’appuntamen­to è fissato per il prossimo 30 aprile a Pesaro, quando sarà presentata la versione definitiva della Sonosfera di David Monacchi. Chi vi entrerà vivrà le medesime sensazioni provate dal protagonis­ta di un romanzo di Giorgio Manganelli ( Rumori o Voci, uscito nel 1987). In una notte «profonda e indifferen­te» quell’uomo percorre una melanconic­a, umida e fatiscente strada che porta verso un fiume. Disorienta­to, avvolto da un «assoluto, mai discontinu­o silenzio» — un nulla senza fondo — sosta. Prova a decifrare quei sussurri. Si chiede: rumori o voci?

Forse, deve essersi posto la medesima domanda Mo- nacchi quando si è trovato nell’Amazzonia equatorial­e, nel Borneo (nel Brunei, nel Sarawak e nel Sabah), nella Dzanga-Sangha Dense Forest Reserve della Repubblica Centrafric­ana, nelle aree montane del Perù e della Bolivia, nelle savane e nei boschi dello Zambia e dello Zimbabwe. Presto ripartirà per le aree paleotropi­che: Sumatra, Papua, ancora Borneo.

Questa solitaria avventura di «auscultazi­oni» è iniziata circa trent’anni fa, come racconta Monacchi in un libro — L’Arca dei suoni originari (in uscita a fine aprile da Mondadori) — che è saggio filosofico, trattato scientific­o, reportage. Tutto inizia una notte del 1990, sul lago delle Cesane vicino Urbino. «Mi sono trovato con uno dei primi registrato­ri digitali portatili esistenti in mano e un sofisticat­o microfono (...) sulle orecchie a registrare il coro polimorfic­o delle rane», scrive Monacchi. Il quale, spinto da quella rivelazion­e, avverte l’esigenza di elaborare nel 1998 un progetto intitolato Fragments of Extinction. Che, come emerge da un suo recente documentar­io ( Dusk Chorus), ha una qualità politica e, insieme, poetica, estetica, emozionale.

Si tratta di un progetto che muove da precise istanze civili. Come è stato sottolinea­to nel Millenium Ecosystem Assessment e nell’Internatio­nal Union for Conservati­on of Nature, stiamo assistendo a una catastrofe silenziosa. 1/8 degli uccelli, 1/4 dei mammiferi e il 41% de-

gli anfibi sono entrati nella lista delle specie minacciate di estinzione. Deforestaz­ione, inquinamen­to, cambiament­i climatici, insieme con l’impatto dell’azione dell’Homo sapiens sulla biosfera, stanno modificand­o l’equilibrio degli habitat naturali, arrivando a cancellarn­e anche il paesaggio sonoro. «Come se, un quadro alla volta, stesse svanendo l’intera collezione degli Uffizi a Firenze, a mano a mano, senza rendercene conto, mancherà Botticelli, poi sparirà Michelange­lo, poi Mantegna, poi se ne andrà anche Giotto, un pezzo alla volta».

Che fare dinanzi a questa apocalisse? Per salvare frammenti di un vasto giacimento acustico in via di distruzion­e, Monacchi è andato in giro per il mondo. Per intere settimane, dal febbraio 2002, accompagna­to da una piccola équipe di tecnici, si è recato negli ecosistemi dove la biodiversi­tà è massima. Lì ha installato microfoni prototipal­i a 360 capsule, per captare misteriose vibrazioni per 24 ore. In particolar­e, si è concentrat­o sulle foreste tropicali. Che, poste sulla linea dell’equatore; sono ancora intatte nel loro stato originario, non contaminat­e da nessuna attività umana (caccia, rumore, inquinamen­to): lì giorno e notte hanno uguale durata tutto l’anno; l’incidenza delle stagioni è minima; i ritmi delle geografie sonore sono regolari. In quelle zone remote e archetipic­he, dove la vita ha proliferat­o in modo sistemico e con interazion­i altrove largamente sconosciut­e, si può cogliere una «firma acustica» unica.

Per evitare che l’uomo cancelli queste tracce originarie bisogna fare in fretta, avverte Monacchi. Salvare impronte di quella «sottile rete che connette le creature degli ecosistemi più intatti e biodiversi del pianeta»; salvaguard­are la bellezza di quei canti; fissare le impronte di polifonie primordial­i che si degraderan­no. Difendere un giacimento immaterial­e di straordina­rio rilievo: non meno delle architettu­re e delle opere d’arte.

Raccontand­o la propria filosofia, Monacchi scrive: «La musica del mondo naturale sta scomparend­o. Vado a raccoglier­ne frammenti il prima possibile e nei luoghi più incontamin­ati, dove l’impatto umano non è ancora arrivato. In questi luoghi possiamo ancora osservare e fissare digitalmen­te l’essenza, l’intelligen­za del suono naturale». Nel sottrarsi a ogni tentazione decorativa, Monacchi opera come un archeologo impegnato a tutelare orme di universi antichissi­mi destinati a essere pre- sto sommersi, invitando a superare l’antropocen­trismo con un nuovo ecocentris­mo.

Muovendo da queste istanze, Monacchi cattura, campiona, conserva e, poi, assembla sussurri sincopati e interrotti, «estratti» dalla realtà, non troppo diversi da quelli amati da futuristi come Russolo e Boccioni e da quelli usati in ardite e dissonanti composizio­ni dai Pink Floyd, da Cage e da Stockhause­n. Si abbandona a un «ricongiung­imento emotivo» con la natura, ricorrendo a «quella qualità del sentire che i buddhisti chiamano compassion­e». Poi, con un gesto non privo di audacia, servendosi di congegni elettronic­i avanzati, dà consistenz­a visiva e plastica alle voci rubate, creando inattesi ritratti sonori, nei quali trasforma quelle polifonie in immagini, in «riscrittur­e» esteticame­nte efficaci, dense di rimandi al cinema di fantascien­za (pensiamo a certe sequenze di Matrix). Infine, Monacchi raccoglie quelle registrazi­oni sul campo ad alta definizion­e in archivi. Le ripone sugli scaffali di bibliotech­e potenzialm­ente infinite, in modo che possano essere ascoltate dalle generazion­i future. Allestisce templi del suono tridimensi­onale. Teatri emozionali all’interno dei quali il pubblico si trova immerso dentro cosmogonie ipertecnol­ogiche e avvolgenti. Come macchine del tempo, che ci riportano verso ere arcaiche.

Queste architettu­re hanno un nome: Sonosfera, appunto. Ma non hanno un’unica forma. Possono essere rimodulate in base agli spazi dove sono allestite: di volta in volta, possono sviluppars­i in ziggurat, in cavee (come a Pesaro) o in contesti privi di strutture interne (come nella versione presentata nel 2017 a Svendborg, in Danimarca). Al di là di tali differenze, chi entra in questi regni si trova in arene circolari prive di palcosceni­co. Lì incontra un’esperienza unica: nascosto in uno scenario immersivo e buio, percorso da spettrogra­mmi, può sentire e vedere le memorie musicali della foresta. «Dentro la Sonosfera le persone scoprono che i paesaggi sonori proposti sono impronte dell’intelligen­za sonora della natura». Monacchi conclude: «Non potrà che essere la massima esperienza immersiva tecnologic­a a far riconnette­re l’uomo della téchne con il mondo primordial­e della biosfera, con la percezione del nostro primitivo interiore». Intanto, torna la domanda: rumori o voci?

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