Corriere della Sera - La Lettura

Uccellacci e uccellini dell’era post atomica

Nei «Sogni di Mevlidò» una nuova incursione in un universo narrativo che rimanda a Tarkovskij e a Hitchcock

- Di VANNI SANTONI

Antoine Volodine è un autore che arriva in sordina. È successo nel suo Paese, la Francia, dove ha volato per decenni sotto i radar prima di esplodere nel 2014, con l’assegnazio­ne del Prix Médicis per Terminus radioso, considerat­o il suo capolavoro, ed è successo in Italia, dove l’autore arrivò con due opere minori — Scrittori e Undici sogni neri, firmato dal suo eteronimo Manuela Draeger, entrambi pubblicati da Clichy nel 2013 — e passò inosservat­o. Quei due piccoli libri, pur brillando per stile e atmosfera, erano ardui da inquadrare, quasi fossero schegge giunte da un universo di cui non si sapeva niente. Era proprio così: a metà 2016 giunse, per L’orma, Angeli minori, collezione di narrat — racconti brevi, secondo il peculiare lessico volodinian­o — che attirò qualche attenzione in più, ma la svolta si ebbe solo alla fine di quell’anno, quando 66thand2nd propose proprio quel Terminus radioso che, oltre a essere il massimo risultato dell’autore, è parimenti una summa del suo immaginari­o. Solo allora il nostro pubblico ha potuto rendersi conto che, sì, quelle prime schegge venivano da un universo strutturat­o e coerente, oltre che molto, molto bizzarro.

Un universo a cui stanno strette le etichette: i singoli elementi rimandano al post apocalitti­co, alla distopia, a un reboot della fantascien­za sovietica, a parodie della spy story e del racconto di guerra, ma il mélange finale, reso possibile dalla raffinatez­za di tocco e stile di Volodine, ben superiore a quella di chi in genere maneggia simili elementi, oltre che dalla sua confidenza con Borges e Pessoa, è qualcosa di diverso e unico. Lo stesso Volodine, sentendo così spesso definire i suoi libri come inclassifi­cabili, ha finito per inventarsi una definizion­e: «post esotismo anarcofant­astico».

Quella che doveva essere una battuta uscita per caso durante un’intervista ha ben presto preso vita, e Volodine, di libro in libro, ha immaginato un’intera letteratur­a post esotica, la quale include i suoi lavori e quelli dei suoi eteronimi, ed esiste all’interno del mondo in cui questi sono ambientati.

In tale filone si inserisce a pieno diritto questo Sogni di Mevli dò (66thand2nd), tradotto da Anna D’Elia, divenuta ormai voce consolidat­a dell’autore — dopo Terminus radioso, la casa editrice romana ha pubblicato nella sua traduzione altri due Volodine, Il post-esotismo in dieci lezioni: lezione undicesima e Gli animali che amiamo — e che ambisce a rivaleggia­re col precedente quanto a intensità e immaginari­o.

Dalla terra desolata post atomica di Terminus radioso ci sis posta adesso in un’ambientazi­one urbana: Mevlidò, un poliziotto rimasto segretamen­te fedele agli ideali della rivoluzion­e, si muove in un quartiere, Pollaio Quattro, descritto come un posto dove «ci sono streghe a ogni angolo ed è zeppo di malati di mente e bolscevich­i», rimpiangen­do la sua amata Verena, massacrata molti anni prima da una banda di bambini soldato, e confrontan­dosi con suoi Doppelgäng­er, immagini specchio e proiezioni. Se Terminus radioso faceva pensare anzitutto al cinema di Tarkovskij, Stalker in testa, in Sogni di Mevlidò, al netto degli elementi fantastici (e di un tocco di Solaris), l’eco principale è quella del cinema di Hitchcock, in particolar­e Vertigo, ovvero La donna che visse due volte. Una suggestion­e acuita dalla presenza, essa pure hitchockia­na, di innumerevo­li uccellacci (in alcuni casi parlanti) a ogni angolo di strada: corvi, gabbiani, polli e civette infestano le scene, sferzano le ginocchia dei personaggi, si sparpaglia­no e riaggregan­o nell’oscurità di notti rischiarat­e solo da una luna inquietant­e, foriera di follia. Ma la città è solo l’anticamera di un viaggio più profondo e esiziale: come spesso avviene nei libri di Volodine, l’azione decisiva si svolge in una sorta di Bardo Thodol, quello spaziotemp­o di confine dove, secondo il Libro tibetano dei morti, le anime vagano prima di reincarnar­si o essere liberate dal ciclo delle morti e delle rinascite.

Un campo metafisico con cui il lettore di narrativa potrebbe aver preso una prima confidenza grazie a Lincoln nel Bardo di George Saunders, vincitore del Man Booker Prize nel 2017, da noi uscito per Feltrinell­i, ma il Bardo di Volodine non ha il riverbero dolce e l’eco malinconic­a di quello del collega americano: Mevlidò e i suoi compagni si muovono «nudi in un ambiente ostile, sub naturale, sub reale, e non potendo svegliarsi o morire per sottrarvis­i, sono costretti a subire l’abbraccio di qualcosa di orrendo che li avvolge e che li penetra secondo dopo secondo e senza tregua». C’è abbastanza, in questi ripetuti viaggi oltremonda­ni e oltre onirici, per stupire anche il lettore più smagato; un problema può insorgere quandocisi è abituati, e difronte a un tale magma oscuro, a una tale reiterata fantasmago­ria, si scopre di non essersi affezionat­i aMev li dò o agli altri personaggi. Ma Volo dine probabilme­nte sorridereb­be beffardo: «Sono spettri che agonizzano in un sogno, a cosa vuoi mai affezionar­ti?».

Un poliziotto rimasto fedele alla rivoluzion­e si muove nel quartiere Pollaio Quattro, pieno di streghe e malati di mente

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