Corriere della Sera - La Lettura
Così Keats creò sé stesso attraverso la poesia
Una parabola brevissima, stroncata a Roma dalla tisi; un’esistenza irrorata dai versi. Ora un Meridiano rende ragione della sua avventura artistica senza cadere nella trappola del mito
Non c’è forse peggior servizio che si possa fare a uno scrittore, che trattarlo a tutti gli effetti come un mito. Così facendo lo si priva infatti della concretezza delle sue ragioni, della difficoltà pratica del fare, dei limiti, delle contraddizioni, delle impossibilità. Lì dove i conti tornano per partito preso, tutto diventa come predestinato, e allora s’immobilizza, svilisce. Eppure, anche una volta detto questo, come si fa a non inchinarsi davanti a John Keats e alla sua poesia? La brevità della vita, un percorso da ogni punto di vista non istituzionale, l’intensità fuori dalla norma del sentire, la totalità dell’investimento poetico, la capacità di esplorare nuovi territori insieme interiori e espressivi, il fare poesia inteso — così diceva — come un «fare anima»: proprio come accade per Hölderlin, per Leopardi, per Rimbaud, ogni cosa riporta sempre e comunque all’eccezionalità della sua vicenda indistintamente esistenziale e poetica.
Di conseguenza, non deve essere stato facile per Nadia Fusini riuscire a testimoniare e, di più, a rendere ragione della compiutezza, forse addirittura imprevista, della sfolgorante vicissitudine creativa di Keats, senza per questo cadere nella trappola della predestinazione, dell’idea del genio, tanto più in agguato trattandosi dell’epoca romantica, eccedente le condizioni e i limiti del suo tempo. Ci stiamo riferendo al saggio introduttivo alle Opere di Keats, che la studiosa ha curato per «I Meridiani» di Mondadori, la nostra più importante collana di classici che proprio quest’anno compie mezzo secolo di vita. Oltre all’intera opera in versi, il volume comprende una scelta consistente delle lettere (non di rado splendide), nonché qualche altro scritto di rilievo. La sempre difficile impresa della traduzione, resa tanto più ardua dalla dominante musicale di questa poesia, è stata divisa tra Viola Papetti, che ha rivisto per l’occasione le sue traduzioni dei grandi poemi keatsiani, e Roberto Deidier, che ha tradotto tutti gli altri testi poetici (alla curatrice si deve invece la traduzione delle lettere e delle prove teatrali). Bene, in ogni caso.
Ma torniamo al ritratto disegnato da Nadia Fusini, il cui fattore distintivo sta nell’aver sì ricondotto a una unità anche minima la parabola poetico-esistenziale di Keats, ma solo e sempre attraverso la sottolineatura della sua perenne irrequietudine, del mancato appaga- mento, delle contraddizioni. La vicenda del poeta inglese viene compresa in relazione al cosiddetto disincantamento, cioè alla consapevolezza, comune a tutti i grandi poeti romantici, della perdita non medicabile del rapporto con la natura, con gli dei, con le radici e il passato, con l’armonia, con la felicità. Nonostante alcuni raggiungimenti poetici indubitabili, tra i più alti che la tradizione della poesia moderna possa offrire, l’immagine del poeta e della sua poesia rimane comunque aperta, drammatica, ferita. Non c’è redenzione, tanto meno in senso romantico (e del resto il Romanticismo più vivo insiste molto più sulla condizione diseredata di ogni singolo uomo, che sulla possibilità di una nuova conciliazione). Esiste sempre un oltre, una realtà prima e ultima dell’essere che questo poeta del mondo terreno, questo poeta integralmente materialista (proprio come il nostro Leopardi, a cui tanto lo accomuna) vede scorrere inattingibile anche dietro alle massime estensioni percettive e sensibili dei suoi versi. Il senso che qualcosa d’essenziale venga comunque mancato lo perseguita continuamente, facendo di ogni suo respiro e parola, anche della più estatica e risolta, una specie di apprensione sempre almeno un poco dolorosa.
Incarnare la quintessenza del poeta romantico per
molti versi significa incarnare la quintessenza del poeta. Tale è appunto Keats. Parole come sensibilità, passione, immaginazione, bellezza, ideale, sentimento, visione, creazione, canto, che sono per eccellenza parole della poesia, sono tutte in egual modo parole di Keats. Le si potrebbe nel suo caso far precedere dal prefisso iper, a indicare l’autentico calor bianco che raggiungono nei suoi versi, nelle lettere, nella vita. Prima di tutto, in ogni caso, è un poeta capace come nessun altro o quasi di sentire. Un sentire che coinvolge non solo le percezioni e il cuore, ma anche la mente, i concetti, la riflessione, e dunque esteso in ampiezza e in profondità, a 360 gradi.
È vero, non mancano passaggi più dimostrativi, componimenti di maniera, esercizi più o meno scolastici e letterari. Anzi, a parte il rapporto con l’amatissimo Shakespeare, il confronto con i predecessori, Wordsworth per primo, è stato serratissimo, ma proprio perché ha condotto Keats a riconoscere, non senza costi, i suoi diversi intendimenti espressivi, e così la diversa inclinazione, le frequenze davvero uniche della sua voce poetica: «Quando sento, mia creatura di un’ora,/ che non potrò più fermarmi a guardarti,/ né godere della forza incantata/ di spensierato amore; sulla sponda/ del mondo resto solo e penso a quando/ nel nulla amore e fama annegheranno». Tanto più nei momenti meglio risolti e accordati, alla singolare intensità di questa poesia contribuisce un senso continuo di spossatezza, di estenuazione per qualcosa che non si riesce comunque a raggiungere. La si può avvertire anche in un verso tra i più celebri — «una cosa bella è una gioia per sempre», con cui si apre il poema Endimione —, perché se è così, la luce di quella gioia estatica in cui il tempo appare sospeso è certo intensissima, ma poi tutt’attorno, cioè appunto nel tempo, resta soltanto il buio.
Nel saggio introduttivo Nadia Fusini ha richiamato giustamente le virtù celeberrime di Keats. Ad esempio, «il potere della simpatia, dell’empatia e di una debolezza cui si accede per via di tenerezza e amore». Va sottolineato allora come questa delicatezza, questa ipersensibilità e ricettività fuori dal comune, trovino il loro corrispettivo in un’altrettanto straordinaria integrità eticopoetica. Keats avanza tra indecisioni, mezzi o interi passi falsi, possibilità contrastate, in modo sempre conteso, insomma. Eppure, come possedesse una bussola poetica tutta sua, sa comunque cercare il proprio nord, non si accontenta, non si fa sviare dagli altri e tanto meno da sé stesso; non fino in fondo, almeno. Di questa sua necessità primaria, del resto, era del tutto consapevole. Nella sua poesia, come pure nelle riflessioni contenute nelle lettere, il contenuto conoscitivo o filosofico è forse meno esplicito che in altri poeti del suo tempo (Coleridge, Hölderlin, Leopardi), eppure certe sue intuizioni e constatazioni costituiscono delle autentiche pietre miliari del pensiero poetico ancora oggi. Così, ad esempio, il valore fecondante di quella «capacità negativa» attraverso cui il poeta vede e accoglie la realtà; oppure l’immagine del «Poeta camaleonte», del poeta come «cosa più impoetica che esista» (una lacuna d’identità che è condizione per comprendere l’altro da sé); o ancora l’idea, anche questa di estrema profondità, che «chi è creativo deve creare sé stesso».
È quello che Keats ha voluto fare. Con la poesia. Nato in una famiglia probabilmente abbastanza agiata (il 31 ottobre 1795, a Londra), ma certo di condizione bassa, plebea, quanto a collocazione sociale, ha fatto della parola poetica l’elemento qualificante della propria esistenza, il mezzo non solo per conoscere ma per giustificare e, alla lettera, per creare la sua stessa vita. Consumato dalla tisi, si spegnerà a Roma a soli venticinque anni, il 23 febbraio 1821, e verrà sepolto nel Cimitero Acattolico del Testaccio, in una terra consacrata dalla sola poesia.