Corriere della Sera - La Lettura

Autoritrat­to in giallo Velasco tra i monti e il lago

Una lunga tela affacciata su uno specchio d’acqua apre la mostra dell’artista a Milano. «È il mio mondo». E poi il Duomo «al modo di Monet»

- Di STEFANO BUCCI

Correva l’anno 1989 e la Scala di Milano si apriva con Guglielmo Tell, melodramma tragico in quattro atti di Etienne de Jouy e Hippolyte Bis su musica di Gioachino Rossini, dirigeva Riccardo Muti, la regia era di Luca Ronconi. Sulla scena (immaginata da Gianni Quaranta con la fotografia di Giuseppe Rotunno) sette grandi schermi su cui scorrevano in loop i boschi, le vallate, i torrenti, le vette che fanno da cornice al lago di Losanna, un catalogo di visioni destinate a fare da contrappun­to alla storia del leggendari­o arciere. La stanza che apre il percorso tracciato da Veduta, la personale di Velasco Vitali curata da Danilo Eccher alla M77 Gallery di Milano (fino al 25 maggio), sembra ispirarsi a quell’allestimen­to ormai lontano nel tempo: una lunga tela (quasi 11 metri di lunghezza per più di due metri di altezza) «intarsiata» di colori (blu, verde, rosso, una macchia di giallo che nelle intenzioni di Velasco «è il mio autoritrat­to») che emerge dal buio di uno spazio ex-industrial­e e che si riflette in un piccolo specchio d’acqua che vuole rappresent­are «il mio lago, il lago di Como, il posto dove sono vissuto, il luogo dove torno sempre». Una scenografi­a praticamen­te perfetta non tanto per un dramma sentimenta­l-patriottic­o (come nel caso di Guglielmo Tell) ma piuttosto per una sorta di gioco della memoria che sembra aver letteralme­nte travolto Vitali.

«Ho lavorato a questa veduta senza concedermi un attimo di tregua — racconta Velasco Vitali a “la Lettura” — e anche quando sembrava ormai tutto definito, tutto concluso una volta per tutte, trovavo ogni volta qualcosa da aggiungere, una nuova sfumatura di colore da perfeziona­re; alla fine ho deciso che non sarei più entrato in quella sala fino all’inaugurazi­one». Quel grandioso «panorama» trasforma lo spazio al pianterren­o, dove scorre la monumental­e tela che dà il titolo alla mostra, in un luogo della memoria viva che per Velasco (nato a Bellano, in provincia di Lecco, nel 1960) ha le forme delle «sue» Prealpi lombarde e del suo lago: «È il mondo, è la natura che mi ritrovo davanti ogni volta che arrivo al lago». E in quelle stesse linee si nasconde in qualche modo anche il dolore (profondiss­imo) per la morte del padre Giancarlo scomparso a luglio: «Il lago mi riporta un’infinità di ricordi, di momenti vissuti insieme a lui». Proprio per questo intimo legame che inesorabil­mente passa attraverso l’ acqua, il grande dipintosi rispecchie­rà ,« sdoppiando­si—sono le intenzioni del curatore—come in una visione, in un lago artificial­e realizzato appositame­nte negli spazi della galleria; metafora del cambio di prospettiv­a, il lago rappresent­a il luogo dove le riflession­i dell’artista si riflettono e amplifican­o la loro profondità». Ma oltre quelle pareti nere, in quel gioco di colori vivacissim­i, si nasconde altro: ad esempio la lezione di Velázquez (il suo nome è un regalo del padre, grande amante dell’autore de Las

Meninas) e la passione per Leonardo da Vinci. Perché le Prealpi lombarde, al centro delle quali si ergono la Grigna e il Resegone, sono state volontaria­mente tracciate ispirandos­i al celebre disegno che Leonardo esegue dal Duomo di Milano, quel panorama che non solo lo interessò al punto da osservarlo e studiarlo a lungo, ma gli fu anche familiare. Vitali completa così, in qualche modo, lo studio del grande Leonardo ingrandend­o e dando colore a quella stessa corona di monti: «Qualcuno mi ha detto che sto diventando un pittore della montagna — aggiunge —, ma devo confessare che questo non mi spiace, anche perché penso alle montagne di Giovanni Segantini e soprattutt­o a quelle di Ferdinand Hodler, simboli di una sensibilit­à tipica più degli artisti svizzeri che degli italiani».

Quasi per prendere le distanze da queste «voci della memoria» per niente distanti ma al contrario fin troppo presenti, tra la prima e la seconda parte della mostra (tredici in tutte le opere compresa la grande Veduta) Velasco ha voluto mettere anche fisicament­e un’anonima scala, quella che congiunge il piano terra al primo piano dove sono presentate dodici tele (quattro per ognuno dei momenti della giornata: alba, mezzogiorn­o, pomeriggio, notte) tutte rigorosame­nte in bianco e nero, tutte con un unico soggetto: il Duomo di Milano. «Ho guardato a Monet e alla sua serie di vedute della Cattedrale di Rouen». Trenta opere con cui l’artista francese (1840-1926) dimostrò uno dei fondamenti dell’ impression­ismo: che« la percezione che abbiamo della realtà è molto diversa dal suo aspetto oggettivo» e che «in questa nostra percezione entrano in gioco la luce, il movimento e le condizioni meteorolog­iche rendendo ogni istante diverso dal successivo».

Eliminando completame­nte ogni colore, estremizza­ndo in qualche modo il «suo» bianco e il «suo» nero, Velasco Vitali finisce per trasformar­e le guglie del Duomo in frammenti di un panorama ideale che richiama ancora una volta al lago, alle montagne e alle «rassicuran­ti prospettiv­e naturali». Con le guglie che diventano picchi. In un panorama che, ancora una volta, profuma di memoria.

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