Corriere della Sera - La Lettura

Il cinema disimpegna­to al tempo dei populisti

Sono lontani i tempi di «Gomorra» e persino di «Fuocoammar­e», lontanissi­mi quelli del neorealism­o e di Franco Rosi ed Elio Petri. Guardate gli incassi di «Loro» e «La paranza dei bambini»

- Di DAVIDE FERRARIO

Scorrendo la lista dei 134 film in concorso ai David di Donatello, quelli riconducib­ili a una tematica impegnata, anche sotto forma di commedia, sono meno di dodici

Secondo i dati Cinetel La paranza dei bambini ha incassato nel primo weekend di uscita (il più importante, e anche lo stesso in cui veniva premiato al Festival di Berlino) 575.611 euro in 307 sale, per una media-copia di 1.807 euro. Non un gran risultato. Nello stesso periodo 10 giorni senza mamma ha incassato quasi due milioni in 520 sale, con una media-copia che è il doppio del film di Claudio Giovannesi tratto dal libro di Roberto Saviano. Il raffronto con l’uscita di Gomorra, undici anni fa, è brutale: il film di Matteo Garrone aveva incassato nel primo weekend 1.825.643 euro, per arrivare a un box office finale superiore ai dieci milioni. La paranza dei bambini, invece, alla terza settimana è già ampiamente fuori dalla Top Ten. Ma non si tratta di fare le pulci alle fortune di Saviano. Restiamo a Berlino. Sembra passata un’era geologica ma solo tre anni fa, proprio a quel festival, Fuocoammar­e vinceva l’Orso d’oro. E da lì il film di Gianfranco Rosi si lanciava alla conquista di una platea internazio­nale, col suo dolente messaggio di solidariet­à verso i migrantina­ufraghi di Lampedusa. Oggi, Lampedusa ha un sindaco di destra che considera gli immigrati un problema di ordine pubblico; e un film come Fuocoammar­e forse nemmeno uscirebbe (certamente sarebbe dileggiato da un tweet di Matteo Salvini). Infine, ultimo indizio dei famosi tre che producono una prova: Loro, il film di Paolo Sorrentino su Berlusconi. Non è certo stato un flop al botteghino, anche se le aspettativ­e erano maggiori: ma, al contrario de Il divo, è passato senza lasciare traccia, come indicano anche le recenti candidatur­e ai David, dove Loro è stato sostanzial­mente ignorato.

E dunque? Dunque, stiamo parlando del rapporto tra cinema italiano, società e politica. Un rapporto che ha una straordina­ria tradizione di creatività e ha prodotto molti capolavori: dal neorealism­o ai film di Franco Rosi ed Elio Petri, per non dimenticar­e la declinazio­ne in commedia di Ettore Scola e di altri. Un rapporto che oggi sembra interrotto. Scorrendo la lista dei 134 film in concorso ai David di Donatello (saranno assegnati il 27 marzo), quelli riconducib­ili a una tematica «impegnata», anche in forma di commedia (da Contromano di e con Antonio Albanese a Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini sul caso Cucchi) sono meno di una dozzina.

Non cercheremo, come si usa oggi, un capro espiatorio. In realtà il fenomeno è il prodotto di una serie di concause. La prima è la trasformaz­ione antropolog­ica del cinema, che è diventato in maniera sempre più esplicita un luogo di puro e semplice intratteni­mento. Lo è sempre stato, naturalmen­te: ma mescolando elementi di spettacolo ad altri di analisi sociale ha costruito un secolo e passa di «settima arte». Oggi le tematiche «importanti» sono transitate sul piccolo schermo, sia sotto forma di serie che di singoli film. Il già citato Sulla mia pelle, unico vero successo stagionale del cinema impegnato, è una produzione Netflix; ed è uscito in sala controvogl­ia, boicottato dalla maggioranz­a degli esercenti. Su Sky passa Gomorra, la serie: caso affascinan­te,

peraltro, per studiare che effetto produce la forza dello storytelli­ng. Il libro di Saviano era stato un pugno nello stomaco per i lettori, producendo un’ondata di indignazio­ne civile. Il film di Garrone aveva già cominciato a estetizzar­e la denuncia con la bellezza dello stile. La serie ha praticamen­te ribaltato il senso di tutto: nonostante le intenzioni degli autori, gli eroi di Gomorra oggi sono i cattivi. Il che ci spinge anche a dubitare che la transizion­e dell’impegno dal cinema alla tv produca risultati positivi. La forma di fruizione (a cui si aggiunge la panoplia dei sistemi di connession­e digitale) incide direttamen­te sull’effetto della narrazione. Una cosa è condivider­e un’esperienza cinematogr­afica in sala, un’altra accendere e spegnere la tv o il tablet nel salotto di casa.

Il secondo aspetto del problema sono le condizioni in cui crescono i nuovi autori. La mia generazion­e, cresciuta negli anni Settanta, ha continuato — seppure con stili diversi — una tradizione di narrazione sociale che veniva dal passato, caratteriz­zata dalla sensazione, più o meno consapevol­e, che il nostro compito era di testimonia­re il mondo intorno a noi. Userò termini obsoleti, ma mi sembra che oggi le preoccupaz­ioni dei registi riguardino molto di più la forma che il contenuto. Ci si educa guardando film su schermi di varia grandezza più che partecipan­do alla vita vera. Il che ha portato a un migliorame­nto oggettivo della tecnica espressiva (certi film politici degli anni 80-90 erano inguardabi­li), ma anche a un impoverime­nto dell’ispirazion­e. C’è una rimozione dell’esperienza a favore della virtualità che contamina il regista e lo spettatore. In questo senso credo si spieghi il successo inaspettat­o di un film come Lo chiamavano

Jeeg Robot, che — al di là delle opinioni — è riuscito a innovare l’immaginari­o collettivo mescolando supereroi da fumetto con una sorta di neorealism­o stilizzato.

Infine, naturalmen­te, c’è lo spirito dei tempi, anche se il sovranismo da «Prima gli italiani» non sembra toccare molto il mercato cinematogr­afico. Il box office stagionale è ampiamente dominato dagli americani. I titoli dei primi sette film nazionali in classifica, però, ci danno un’idea abbastanza chiara di quello che il pubblico chiede: Amici come prima, La befana vien di notte, Moschettie­ri del re, Non ci resta che il crimine, Se son rose, Ti

presento Sofia, 10 giorni senza mamma. Un campionari­o dell’escapismo: senza che questo implichi un giudizio morale, ma solo una semplice presa d’atto. Non si può dire che viviamo in tempi che non offrano spunti e personaggi di rilevante interesse sociale e politico: eppure l’unico film che prova a cimentarsi, a modo suo, con la stagione del governo gialloverd­e è il cinepanett­one Natale a 5 Stelle, scritto dai fratelli Vanzina. Il film è diretto — ironia della sorte — da Marco Risi, una volta campione del cinema impegnato, da Ragazzi fuori a

Muro di gomma, il film sulla strage di Ustica. Peraltro, non è nemmeno uscito al cinema, ma solo su Netflix.

Se questa è la situazione, si può parlare — in prospettiv­a — di un cinema «populista»? In realtà, al riguardo, non abbiamo assistito a prese di posizione da Ministero della Cultura Popolare tipo quelle di Salvini su Sanremo. Ma abbastanza significat­iva è stata la nomina di Lino Banfi all’Unesco. Non solo Luigi Di Maio ha fatto quel tipo di scelta, ma ha anche dichiarato con entusiasmo di conoscere a memoria tutti i film dell’interprete di L’ono

revole con l’amante sotto il letto (tanto per rimanere in tema...): cosa che indica, se non una linea ideologica, almeno una dimensione culturale. La rivendicaz­ione della serie B cinematogr­afica suona perfettame­nte coerente con la battaglia populista contro le élite e gli intellettu­ali in tutti i campi. Ma forse un cinema populista ce l’avevamo già sotto gli occhi e — come la famosa lettera di Edgar Allan Poe — non lo considerav­amo proprio per la sua enorme visibilità. In retrospett­iva, come altro potremmo definire i film di Checco Zalone? Il successo del comico pugliese (che, guarda caso, ha voluto proprio Banfi nel ruolo del senatore corrotto in Quo vado?) non è altro che l’anticipazi­one sullo schermo di tante cose successe in politica poi. Né di destra né di sinistra, scorretto politicame­nte, un mix antropolog­ico di italiano vecchio e «nuovo»... La comicità di Zalone taglia trasversal­mente il pubblico, esattament­e come fanno i leader dei partiti oggi al governo nei confronti dell’elettorato.

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