Corriere della Sera - La Lettura

La poesia ha una voce moltiplica­ta per mille

- di MARZIO BREDA

quattro pagine sulla Giornata della Poesia

Uno dei filosofi italiani più noti nel mondo si lancia in una nuova avventura: curare una collana di poesia in dialetto. Un’operazione, spiega Giorgio Agamben in questa intervista, concepita nella convinzion­e che nel nostro Paese la poesia con Dante sia nata nel segno del bilinguism­o: il volgare, o «parlar materno», e la «grammatica», che si impara col tempo E così, alla vigilia della Giornata mondiale della Poesia del 21 marzo, la scrittura in versi torna a interrogar­ci: non solo se alla grammatica di Dante corrispond­a l’italiano come lingua nazionale e al volgare i cosiddetti dialetti, ma anche sul suo valore «politico». Perché «più l’esperienza della parola è viva, tanto più sfugge alle manipolazi­oni e crea libertà»

Per quanto abbia cura di tenersi appartato, Giorgio Agamben è il filosofo italiano oggi forse più presente — in quanto molto tradotto e letto — nella vita intellettu­ale europea, e non solo. Le sue affascinan­ti teorie e riflession­i, maturate anche su un vasto retroterra di incontri (ha partecipat­o ai seminari di Martin Heidegger, ha frequentat­o Pierre Klossowski e Jacques Derrida, è stato amico di Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante e Italo Calvino, per citare alcuni nomi), spaziano su diversi ambiti, quello del linguaggio in particolar­e. Così, ha spiegato più volte il legame tra fil o s of i a e p o e s i a a s s o c i a n d o l’amore per la verità all’amore per la parola e definendo il pensiero come «un momento poetico».

Ora, professor Agamben, lei cura una collana di poesia dialettale per l’editore Quodlibet. Un evento, perché propone l’idea di una poesia «altra», parallela e non meno importante di quella riferibile al monolingui­smo della tradizione italiana. Com’è nata questa sfida?

«La decisione, o la sfida, come lei dice, è nata dal convergere di una serie di fattori tutti ugualmente urgenti. Da una parte la convinzion­e che la poesia italiana sia nata con Dante sotto il segno del bilinguism­o: il volgare, il “parlar materno”, che apprendiam­o da bambini senza alcuno studio, e la lingua che egli definisce secondaria o “grammatica”, che apprendiam­o attraverso una lunga disciplina. Non si tratta per me tanto di un ritorno alle origini, quanto piuttosto di una scelta letteraria e politica insieme. L’ipotesi che questa collana propone è, infatti, che oggi alla grammatica di Dante corrispond­a l’italiano come lingua nazionale e al volgare i cosiddetti dialetti e che la poesia italiana, che sembra attraversa­re una fase di crisi o di stasi, potrà rinascere solo se tornerà a nutrirsi di questa intima

diglossia. Non è certo un caso se la grande fioritura della poesia italiana del Novecento sia stata discretame­nte accompagna­ta da un’altrettant­o grande fioritura della poesia in dialetto ed è probabile che esse siano così strettamen­te connesse, che senza l’una non avremmo avuto nemmeno l’altra...».

E l’aspetto più «politico» della sua scelta, qual è?

«Non meno urgente era per me prendere posizione, come aveva fatto Pasolini sulle tracce di Gianfranco Contini, nell’opposizion­e fra l’unilinguis­mo petrarches­co, dominante nella nostra tradizione letteraria e caratteriz­zato dall’unità di tono e di lessico, e il plurilingu­ismo di Dante. E va da sé che l’urgenza era anche politica e filosofica: di fronte alla cecità di una classe dirigente che, tanto a sinistra che a destra dello schieramen­to politico, continua a muoversi nella direzione globale indicata dallo sviluppo capitalist­ico si trattava di ricordare che una sorta di bilinguism­o è interno a ogni lingua e a ogni cultura».

Il diglossico Andrea Zanzotto denunciò la sclerosi dell’idioma nativo, legandola alla «catastrofe dell’italiano». Nel 1957 scriveva: «Pace per voi per me/ buona gente senza più dialetto». Poi, come aveva teorizzato in «Filò», il dialetto lo utilizzò molto, e senza intonarne il requiem. Ma lei, nella sua ricerca, non si è sentito mai come un archeologo che riporta alla luce dei fossili linguistic­i?

«Una delle novità della nostra raccolta delle poesie di Zanzotto in dialetto è la straordina­ria Ecloga in dialetto per la morte del dialetto, che era sfuggita alle precedenti edizioni delle poesie complete. Qui uno dei massimi poeti in lingua del Novecento, al momento di chiedersi: ”O vera lingua mia, dove sei?”, afferma senza mezzi termini che “c’era sempre qualcosa di fasullo/ in quello che scrivevo in Italiano”. Credo che tanto la domanda che la diagnosi spietata vadano prese sul serio. Né per il poeta né per me si tratta di inseguire fossili linguistic­i. Proprio al contrario, quel che qui appare alla luce è il problema decisivo tanto per il poeta che per l’uomo come animale parlante: “Dov’è la lingua? E quale lingua io posso veramente dire mia?” In qualche modo i libri della collana, in cui il testo in dialetto ha a fronte l’autotraduz­ione in italiano, rispondono a queste domande, quasi che la poesia non potesse più dimorare nell’identità di una lingua e, in una sorta di trafelato andirivien­i, si muovesse incessante­mente da un testo all’altro. Essenziale per me non è tanto il dialetto, quanto questo movimento della lingua al di là della sua identità».

Il recupero del «vecio parlar» da parte di Zanzotto rientra anche in una ricerca di «poesia totale», costruita intarsiand­o l’italiano con idiomi di ogni tempo e luogo, in primis il dialetto. Che cosa differenzi­a quest’operazione iperletter­aria dal babelico laboratori­o dei «Cantos» di Ezra Pound?

«Tanto i Cantos di Pound che Finnegans Wake di James Joyce sono testi multilingu­istici, costruiti attraverso un intarsio quasi delirante di lingue diverse (per Pound, oltre all’inglese, l’italiano, il provenzale, il cinese; per Joyce il mosaico è ancora più vasto). Ma l’analogia col bilinguism­o della nostra collana è solo apparente. Mentre per Pound come per Joyce si trattava di raccoglier­e i frammenti non più intellegib­ili di una tradizione che era arrivata a un punto morto, cioè, per così dire, secondo il progetto caratteris­tico delle avanguardi­e, di provare a trasmetter­e la stessa impossibil­ità di una trasmissio­ne; per me si tratta proprio al contrario di riportare l’esperienza del linguaggio al suo punto sorgivo, là dove, come scrive Zanzotto, “si tocca con la lingua il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte”».

Per Pasolini l’uso del dialetto è legato al processo di autoidenti­ficazione con la terra materna e alla scommessa di far lievitare — dopo la fase pedagogica della «Academiuta de lenga furlana» — «un volgare illustre del friulano». E forse c’era pure la spinta etica di costruire una «controstor­ia». Quanto ha pesato in lui la vicinanza affettiva con una cultura contadina subalterna e in via di annientame­nto?

«La decisione di un ventiduenn­e in un piccolo paese del Friuli, percorso dalle armate tedesche in fuga e bombardato dall’aviazione alleata, di scrivere in dialetto e di fondare la sua Academiuta, mi è sempre parsa non solo coraggiosa, ma estremamen­te lucida. Negli stessi anni Carlo Levi scrive Cristo si è fermato a

Eboli, in cui il problema della cultura contadina e della possibilit­à di un’altra Italia è pensato con una forza che la cultura progressis­ta del tempo si dimostrò del tutto incapace di comprender­e. La cultura veramente subalterna è stata e continua a essere quella dominante, mentre tanto Levi che Pasolini, guardando ciascuno a suo modo alla cultura contadina, cercavano di pensare un’idea dello Stato fondata su una serie di autonomie che partivano dal basso».

Nonostante se ne dia sempre per imminente l’estinzione, i dialetti rifiorisco­no anche nella poesia contempora­nea. Una prova viene dal bilinguism­o del veneziano Francesco Giusti. Come spiega questa vitalità?

«La lingua nazionale di cui già negli anni Settanta Pasolini denunciava l’appiattime­nto oggi ha perso ogni vitalità. Se Pasolini avesse potuto leggere l’italiano in cui sono scritti oggi la maggior parte dei romanzi pubblicati dalle grandi case editrici sarebbe inorridito. Quello che mi pare sia da spiegare non è la vitalità della poesia in dialetto, ma l’inerzia cadaverica della lingua in cui sono scritti quei romanzi».

La sua esplorazio­ne nella poesia bilingue le ha permesso di catalogare in quali aree d’Italia sia più vivo il dialetto, letteraria­mente e non solo?

«È difficile dare una riposta, perché la poesia dialettale è spesso pubblicata da editori che rimangono nascosti e non hanno accesso alle grandi reti di distribuzi­one. Certamente il Friuli, da Amedeo Giacomini a Pierluigi Cappello, e il Veneto, da Andrea Zanzotto e Luciano Cecchinel a Pier Franco Uliana, restano particolar­mente vivi. Ma il prossimo volume della collana, dopo Pasolini, Zanzotto e Giusti, raccoglier­à l’opera completa di Franco Scataglini, uno straordina­rio poeta anconetano. Naturalmen­te, come Dante diceva a suo tempo per i volgari, anche il dialetto muta e si trasforma».

Anni fa la Lega propose l’insegnamen­to obbligator­io del dialetto a scuola. Qualcuno vi scorse l’intento di rafforzare le identità locali etnicizzan­dole anche per via linguistic­a, a costo di autosegreg­are ciascuno nella propria piccola patria e di dichiararl­a «off limits» agli estranei. Che cosa pensa di quest’uso politico del dialetto?

«Il dialetto, la lingua-poesia, come lo chiamava Pasolini, è in sé stesso politico. La politica è oggi più che mai legata alla manipolazi­one della parola. Quanto più l’esperienza della parola è viva e sorgiva, tanto più sfugge alle manipolazi­oni e crea libertà».

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ILLUSTRAZI­ONE DI NATHALIE COHEN
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Il lancio Le copertine dei primi tre volumi della serie sulla poesia dialettale pubblicata da Quodlibet (Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto e Francesco Giusti), che usciranno in contempora­nea il prossimo 21 marzo. I volumi della nuova collana, curata dal filosofo Giorgio Agamben, sono arricchiti dal testo a fronte
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