Corriere della Sera - La Lettura

Il padre allievo del figlio I due Pistoletto a Biella

L’omaggio di Michelange­lo al papà Ettore in due autoritrat­ti su brocca, due autoritrat­ti a 75 anni e una mostra piena d’affetto a Biella da aprile a ottobre

- Di STEFANO BUCCI

Ettore e Michelange­lo, Michelange­lo e Ettore, padre e figlio, figlio e padre. È una storia lunghissim­a, una storia prima di tutto di affetti, quella riflessa nelle oltre cento opere in mostra dal 17 aprile al 13 ottobre tra Palazzo Gromo Losa e la Cittadella­rte di Biella e la Casa Zegna di Trivero. Una storia che mette a confronto la produzione di Michelange­lo Pistoletto (Biella, 1933), uno dei grandi maestri della Pop Art e dell’Arte Povera, e quella di Ettore Pistoletto Olivero (18981981), apprezzato pittore di paesaggi e nature morte, nonché padre di Michelange­lo. E se la mostra, curata da Alberto Fiz, si presenta con un titolo assai tranquillo ( Padre e Figlio appunto), è solo apparenza: perché quel legame viene analizzato, sviscerato, celebrato a cominciare dall’arte con l’intenzione però di ridefinirl­o «in un modo non più unidirezio­nale che consenta — secondo Pistoletto junior — di lasciare un’eredita ai padri, anziché affidare solo ai figli la responsabi­lità di trasmetter­e il sapere dei padri».

In questo gioco di specchi e riflessi (gli specchi e i riflessi tanto amati da Michelange­lo) la memoria e i ricordi la fanno da padroni, non senza ironia: «Mio padre era nato nel 1898, in pratica due secoli fa — racconta Pistoletto a “la Lettura” nella sua casa rifugio di Biella, davanti a una delle sue serigrafie su acciaio inox supermirro­r, insomma davanti a uno dei suoi celebri specchi —. Cento anni e due generazion­i che sembrano essere volati via come niente. A conferma che si fa davvero molto presto ad arrivare ai Romani, a dire mio zio antico romano». E certo questo gap generazion­ale e artistico appare evidente se si mette a confronto quel ciclo pittorico realizzato da Ettore per la famiglia Zegna che doveva raccontare il processo della produzione della lana con le opere (più estremiste) di Michelange- lo: Pozzo cartone e specchio del 1966, Il tavolo diviso del 1979, Scaffali-frutta e verdura del 2015.

Certo è che il legame tra i due Pistoletto deve essere stato davvero profondiss­imo. Così profondo che Michelange­lo avrebbe sentito, nel 1973, il bisogno di produrre un’opera come Autoritrat­to attraverso mio padre. «Ho utilizzato un disegno che mio padre mi aveva fatto quando avevo 3 mesi, quando ero troppo piccolo e avevo bisogno della mano di mio padre per farmi l’autoritrat­to». Mentre la mostra Padre e Figlio copre un tratto brevissimo, eppure infinito perché «l’universo è un incrocio di destini, una cosa accade perché ne è successa un’altra prima e perché ne succederà un’altra poi».

Da artista come giudica Michelange­lo suo padre? «Rappresent­a il metodo antico dell’arte, quello che non teneva conto dello sviluppo scientific­o, tecnologic­o o della macchina fotografic­a perché era convinto che tutto potesse essere riprodotto con il pennello». Un padre, Ettore, che non ha voluto «che facessi l’Accademia e che ha sempre escluso la possibilit­à che l’arte moderna potesse entrare a far parte della sua visione». Ma che non è mai entrato in crisi: «Aveva perso l’udito all’età di otto anni e crescendo ha dovuto sviluppare l’occhio al posto dell’orecchio, l’occhio era diventato per lui il mezzo fondamenta­le e attraverso la pittura ha trovato certezze». Rimanendo comunque

«Un giorno gli dissi: non fare più nature morte con i funghi, i fiori, la selvaggina come nell’Ottocento; guardati attorno, fai quello che hai sempre fatto e sai fare molto bene, ma fallo con le cose di oggi »

ai margini della modernità: «Gli è mancato la possibilit­à di incontrare gli artisti di quell’avanguardi­a che nasce dalla discussion­e, dal dibattito, sia che si parli di impression­ismo, di cubismo, di surrealism­o, di futurismo, dell’astratto puro alla Capogrossi o all’action painting ». Perché questa citazione proprio di Capogrossi? «Per far capire che l’Italia non è mai stata fuori dalla storia, anzi è stata sempre parte della storia».

E sua madre? «Comincio a vedere l’arte moderna, negli Anni Quaranta-Cinquanta, proprio grazie a mia madre che mi ha iscritto alla scuola di pubblicità di Armando Testa: con Testa ho sentito l’arte moderna come una mia necessità profonda interiore e non come una cosa da studiare». Ettore era pittore, ma anche restaurato­re... «Ho cominciato a lavorare con lui, restaurand­o, quando avevo quattordic­i anni, ma prima ha voluto insegnarmi a disegnare e a dipingere nel modo più classico». Come è diventato allievo di suo padre? «Gli ho detto: fammi provare. Lui mi ha risposto: finalmente ho trovato l’allievo giusto».

Il suo primo Autoritrat­to Michelange­lo lo realizza a 14 anni ed è un disegno (oggi perduto) di cui si ricorda ancora perfettame­nte: «Una sanguigna che, tra l’altro, mi ha fatto anche capire che stavo diventando un uomo perché guardandol­o ho visto dello sporco sulla mia faccia ed erano i miei primi peli di barba». Poi è arrivato Piero della Francesca con la Fla

gellazione: «Avevo 18 anni, con mio padre e un suo amico eravamo andati in gita a Urbino, a Palazzo Ducale, era un giorno feriale e non c’era nessuno. All’improvviso mi sono trovato da solo davanti alla

Flagellazi­one, nessuno me l’ha spiegata, ma ho capito che il presunto conflitto che esisteva tra l’arte figurativa che era vecchia e l’astratto che era moderno, era un falso problema, perché nella Flagellazi­o

ne c’era tutto, l’antico e il moderno, la dimensione astratta e quella figurativa».

Come è stato lavorare con suo padre? «All’inizio voleva che facessi dei paesaggini, tanto che mi sono detto che se questa era l’arte, non mi interessav­a». Ma Pistoletto inizia subito a sperimenta­re o, come dice oggi, a pasticciar­e. E, soprattutt­o, a pensare: «Vedendo un lavoro di Fontana — ammette — ho capito che Fontana aveva una buona ragione per fare un buco nella tela e se ancora non avevo capito quale, sapevo che comunque c’era. Però io dovevo trovare la mia ragione, non quella di Fontana». L’ha trovata? «Io esisto anche perché l’arte mi porta la mia immagine, la mia immagine è nell’autoritrat­to: ho capito che dovevo lavorare sulla mia persona». Allargando la prospettiv­a più tradiziona­le grazie ai suoi sfondi prima oro, poi argento e infine specchiant­i, ennesimo omaggio al padre: «E a tutte le icone che aveva restaurato...». Ma non solo: «Tutta l’arte, fino al barocco, ha sempre messo insieme figura e fondo oro, proprio come un’icona. Non si dice di una star che è un’icona? Solo che nell’icona mi ci sono messo io».

In questo confronto generazion­ale e di affetti chi è stato il maestro e chi l’allievo? «Ognuno ha imparato qualcosa di importante dall’altro, ma mio padre è diventato vicino alla mia arte, perché gliel’ho insegnato io». Quando Michelange­lo («Era il 1968, credo») gli ha chiesto di non fare più le nature morte con i funghi, i fiori, la selvaggina, i pesci, le cipolle come usava nell’Ottocento, ma di utilizzare oggetti della modernità, si è rivolto a lui così: «Guardati attorno, prendi un foglio di linoleum e quello che trovi in casa, una lattina di caffè Paulista o una copia de “La Stampa”, fai quello che hai sempre fatto, ma fallo con le cose di oggi».

Così il padre è diventato allievo del figlio: «Con quella brocca specchiant­e l’ho obbligato a farsi l’autoritrat­to con tutto lo studio». Un omaggio più volte ricambiato: con un Autoritrat­to del 2008 quando la figura di Michelange­lo appare riflessa in una brocca uguale a quella del padre. O quando il figlio ha compiuto 75 anni e ha deciso «di mettere in piedi una mostra dal titolo I coetanei perché avevo la stessa età di mio padre quando aveva fatto la sua prima mostra». Al centro: un’opera che affianca due ritratti di padre e figlio, entrambi a 75 anni, ormai sempre più simili. E che sarà uno dei momenti forti di questa nuova mostra che ribalta (sia pure con passione) tutto, anche gli affetti, proprio come in uno degli specchi di Michelange­lo.

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