Corriere della Sera - La Lettura

La giovane orfana ha ritrovato la mamma

- Di CECILIA BRESSANELL­I

Il 21 marzo, Giornata delle persone con sindrome di Down, esce «Dafne». È la storia di una giovane donna di 35 anni con la sindrome di Down, di suo padre e della madre morta, che Dafne ritroverà in qualche modo alla fine

Abbiamo visto il film con Daniela Cislaghi e sua figlia Agnese, anche lei con sindrome di Down, con la psicologa Silvia Mandelli e con Rita Viotti, presidente dell’Associazio­ne genitori e persone con sindrome di Down

«Ame è piaciuto molto». Così Agnese Bosisio, 19 anni, che da poco, conclusa l a scuola, è entrata nel mondo del lavoro con uno stage, commenta il film che ha appena visto.

L’appuntamen­to con «la Lettura» era all’Anteo Palazzo del Cinema di Milano per l’anteprima di Dafne, secondo lungometra­ggio di Federico Bondi, che dall’ultima Berlinale ha conquistat­o il Premio Fipresci (il riconoscim­ento dei critici internazio­nali) per la sezione Panorama. È la storia di Dafne, interpreta­ta da Carolina Raspanti (classe 1984). I capelli tinti di rosso fuoco, il sorriso contagioso, le magliette con le ali, l’inseparabi­le zainetto: Dafne ha 35 anni e la sindrome di Down. Ama il suo lavoro alla Coop e vive con i genitori, Luigi e Maria. Alla fine delle vacanze estive, trascorse tra passeggiat­e e serate sulla pista da ballo, la madre muore. Dafne e Luigi devono affrontare il lutto e provare a trovare un nuovo equilibro.

«La Lettura» ha visto il film — che arriva nelle sale il 21 marzo per la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down — con Rita Viotti, presidente di Agpd (Associazio­ne genitori e persone con sindrome di Down Onlus), Silvia Mandelli, psicologa dell’associazio­ne che accompagna le famiglie dei bambini da zero a 10 anni, Daniela Cislaghi e sua figlia Agnese, ultima di 5 fratelli, anche lei con la sindrome di Down come la protagonis­ta. Durante la proiezione l’attenzione è tutta per le immagini che scorrono sullo schermo, qualche commento accennato sottovoce, commozione e risate.

All’uscita dalla sala Agnese rompe il ghiaccio: «Mi sono piaciute molto tre scene. Una è quella all’inizio, dove la ragazza ha ballato. Un’altra che mi ha colpito è quella in cui dice che apre la pasticceri­a; anche a me piacerebbe, a scuola ho imparato a fare il pane e i dolci. E poi l’ultima scena, quella che scopre il respiro della sua mamma». Chiuso in un palloncino, trovato in un vaso e conservato con cura in una scatolina.

«All’inizio — interviene la psicologa Silvia Mandelli — ho temuto che il film potesse prendere una direzione superficia­le. Ma così non è stato. La protagonis­ta ha un linguaggio ricco e un livello di consapevol­ezza alto, non comune; mi sono chiesta quanto questo fosse reale oppure indotto».

Il terreno è scivoloso: affrontare la sindrome di Down — o Trisomia 21, condizione cromosomic­a causata dalla presenza di una terza copia del cromosoma 21 — senza eccedere in stereotipi o patetismo. Il film sembra ingranare a fatica. Ma poi Dafne travolge: il dolore; il silenzio accanto al padre, il pianto, gli abbracci con i parenti; la difficile ricostruzi­one di una nuova quotidiani­tà per padre e figlia, l’immobilità e la depression­e di Luigi, la determinaz­ione di Dafne, che vuole tornare al lavoro, tra i colleghi che la accolgono in festa. È lei il motore della storia.

Anche Daniela Cislaghi, mamma di Agnese, si chiede se il personaggi­o di Dafne non sia troppo costruito: «Nella sua semplicità mi è sembrata molto matura, quasi aggressiva nei confronti del padre, come se volesse prendere il posto della madre. La sua determinaz­ione mi ha spiazzata». Una risposta arriva da Rita Viotti: «Non ho conosciuto la ragazza che interpreta Dafne, ma ho visto dei video e letto quello che ha scritto e lei è proprio così». Le dichiarazi­oni del regista lo confermano: «Non è stata Carolina a entrare nel film, ma il film a piegarsi a lei».

«Ho conosciuto molti ragazzi e ragazze che scrivono temi e poesie — aggiunge Silvia Mandelli —, o che attraverso il teatro arrivano a un piano di lettura e comunicazi­one dei sentimenti profondo, che fa riflettere. Perché davvero ogni persona con la sindrome di Down è diversa, ha le sue modalità per esprimersi, non è detto che il canale privilegia­to sia quello verbale; può essere la danza, il movimento, la musica, il rapporto con l’acqua, il camminare, lo studio della matematica o lo scrivere. È la posizione di ascolto in cui ci poniamo a fare la differenza».

«In associazio­ne potremo sguazzare in questo film per molto tempo, analizzand­o ogni singolo pezzo. Il regista è stato molto bravo, tutto è pulito e reale. Dovrebbero mostrarlo anche nelle scuole», aggiunge Rita Viotti.

Molti i temi affrontati, a partire dal dolore: «Il grosso rischio, per tutti, sta nel desiderio di bypassarlo — sottolinea la dottoressa Mandelli —. Invece Dafne si concede di viverlo, per poi decidere di riprendere la sua vita». E la presidente dell’Agpd incalza: «In quel momento il film assume il carattere più universale. Il tema non è più la sindrome di Down: ci sono due persone, con le loro fragilità, e ognuna deve trovare la sua strada». Silvia Mandelli rivede nel film anche il tema della mediazione: «Nel momento in cui la mamma non c’è più, si percepisce come facesse da tramite nelle relazioni tra Dafne e il padre che devono trovare una nuova modalità di comunicazi­one; una dinamica reale».

Dafne (re)agisce, affronta il lutto, sistema casa, e propone al padre un viaggio a piedi, in montagna, per raggiugner­e il paese natale della madre, dove è sepolta.

E i due si rimettono in moto.

In una pausa del cammino, Dafne, seduta a una fermata dell’autobus con il padre, tira fuori dallo zainetto il contenuto, tanti piccoli oggetti, riposti con cura. La

Agnese «Mi sono piaciute tre scene: quando Dafne balla, quando dice che apre la pasticceri­a, quando scopre il palloncino col respiro della mamma»

scena ha colpito la psicologa: «Ho visto tante borsette, zaini come quello. Ogni borsa parla della persona; solo una parte del contenuto viene condiviso; e lì inizia la crescita; nel non condivider­e tutto. Quegli oggetti sono personali, non tutti indispensa­bili, ma tutti parlano di sé».

«La mia borsetta non è uguale alla sua, ma anche io ho dentro tante piccole cose, che sono mie. Poi nel film c’è anche il peluche», aggiunge Agnese, un peluche colorato che Dafne prima della morte della mamma acquista di nascosto con i suoi soldi: «E poi piange e lo butta».

Si parla anche di crescita. «C’è una scena in cui Dafne vorrebbe la chiave del bagno e della camera, lì — sottolinea Rita Viotti — c’è tutta l’autodeterm­inazione di una ragazza che riesce a dire “voglio la mia libertà, i miei spazi”; è un percorso a cui si arriva gradualmen­te, che si costruisce all’interno della famiglia». «Si può diventare adulti solo nel momento in cui gli altri, i genitori, ti concedono di esserlo», sottolinea Silvia Mandelli. Interviene la mamma di Agnese: «L’autonomia è il desiderio che abbiamo per tutti i nostri figli, tanto più se hanno delle difficoltà».

Durante la lunga camminata Dafne chiede al padre se si vergogna di lei: «Un momento molto toccante — sottolinea Daniela Cislaghi — anche se per me tutto è stato molto diverso. Quando è nata Agnese si è aperto un mondo; un mondo grande, difficile ma meraviglio­so».

Dafne e il padre si fermano in una trattoria. La proprietar­ia, mentre Dafne si allontana per aiutare a risolvere un problema al pc, confessa il suo stupore: «È in gamba. Io pensavo che avessero tutti la lingua di fuori questi ragazzi». E lui risponde: «Anche io, quando è nata. Non sono andato all’ospedale per tre giorni. Non riuscivo nemmeno a guardarla. Ma poi mia moglie me l’ha messa davanti e mi ha detto: “La senti, ha il nostro odore, è come noi”. E da quel giorno ho cominciato a guardarla; non potevo avere paura di lei». Un’esperienza riferita da molti pa- dri, suggerisco­no presidente e psicologa. «La vita è dura, sei un uomo umano», dice a un certo punto Dafne a Luigi; ed ecco anche la consapevol­ezza della pienezza della vita e della sua fatica.

Ci sono dei tratti distonici nel film? Risponde la mamma di Agnese: «Il fatto che sia sempre Dafne ad agire per prima, che sia lei a proporre al padre di mettersi in cammino, a entrare nella trattoria e chiedere un posto per mangiare e per dormire, e sempre lei a interpella­re le guardie forestali. Questo non corrispond­e alla mia esperienza». Rita Viotti invece: «In ogni tratto di Dafne rappresent­ato sullo schermo ho trovato qualcosa di mio figlio (il parlare continuame­nte) o di altri ragazzi. Ho un nome per ogni pezzo del film. Si vede che il regista è stato travolto da Carolina ed è riuscito a entrare nel suo mondo. Quando ci sono ragazzi così competenti e così capaci di esprimersi, ci si chiede se possano davvero rappresent­are tutti. Di sicuro possono dare voce a quella parte interiore ed emotiva anche per coloro che non riescono a farlo».

Agnese verso la fine dell’incontro torna a parlare del pane, dei dolci, della pizza, dei gesti che ha imparato a scuola e che ripete con cura. La dottoressa Mandelli interviene: «È molto bello il valore che dai a tutti i gesti, senza dare nulla per scontato. Proprio come la dovizia mostrata da Dafne nel film». Daniela sorride: «È una cosa che Agnese mi ha insegnato fin da piccola». E dopo un po’ aggiunge: «Ho molto da imparare da lei. Ed è proprio così: ogni persona è unica e irripetibi­le con la sua strada da percorrere fatta di gioie e fatiche (sindrome e non), conquiste e fallimenti, ma soprattutt­o tanti desideri che ci fanno alzare e metterci “in viaggio”. E questo è il miracolo della vita».

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