Corriere della Sera - La Lettura

L’eredità dei Balcani sul Cittadino e sul Vicino

- Di BORIS PAHOR e di SLOBODAN ŠNAJDER

Nel 1920 ho 7 anni, sono un bambino di famiglia e lingua slovena e a Trieste stanno per rubarmi l’identità nazionale. Nel 1923 ho 10 anni, frequento la quinta elementare statale slovena e il fascismo mi impone di passare in quella italiana. Più avanti, mio padre mi iscrive a un istituto commercial­e: vengo bocciato due volte. Sono bloccato, forse perché costretto a diventare italiano. Ma sono e mi sento cittadino sloveno. Sono stato seminarist­a, combattent­e in Libia, deportato, interprete, malato di tisi, laureato in Lettere a Padova, insegnante di italiano perché mi viene impedito di insegnare lo sloveno. Ma resto uno scrittore sloveno. Quando la Slovenia è entrata nell’Ue, sono invitato a Parigi. Non posso rappresent­are la Slovenia, replico. Vengo come cittadino europeo

Ho 7 anni nel 1920, quando, bambino di famiglia slovena, una ferita brucia la mia pelle; stanno per rubarmi l’identità nazionale. Quel giorno di luglio, a Trieste, mi trovavo con mia sorella a due passi dal Narodni dom, la Casa del popolo e della cultura degli sloveni. Vidi l’edificio andare a fuoco per mano dei fascisti. Choc nervoso, l’inizio di un forte disagio.

Frequentav­o la scuola elementare statale slovena, quando, in quinta, con il fascismo al potere, mi fu imposto di passare in quella italiana. Un cambio traumatico. Ricordo ancora l’umiliazion­e subita alla lettura in classe di un tema, scritto male, nella lingua che non era la mia. Umiliato e deriso. Più avanti, mio padre mi iscrisse a un istituto commercial­e; fui bocciato due volte. Ero bloccato, forse perché costretto a diventare italiano, cittadino italiano, e io non me ne facevo una ragione. Ero e mi sentivo cittadino sloveno. Poi, su consiglio di un’amica di mia madre, mi spediscono in seminario a Capodistri­a/Koper. (L’Italia aveva vinto la guerra e come premio aveva ricevuto l’Istria intera, Trieste e il territorio austriaco abitato dagli sloveni fino a quasi alla cima del Triglav/Tricorno). In seminario, molte cose si chiariscon­o, prendo coscienza della doppiezza della mia identità. Sarà una costante nella mia vita. Capisco che per ottenere la promozione devo essere esteriorme­nte italiano. «Noi dobbiamo essere più bravi degli italiani», mi ripete Albin Bunic, il compagno di banco che aveva compreso prima come stavano le cose. Mi riprendo e il mio profitto scolastico cambia, vengo promosso a pieni voti alla Maturità liceale. Conseguita in seminario, pe- rò, non dà accesso all’università. Comunque sia, il sacerdozio non è la mia strada, decido di lasciare.

Ho 27 anni, e non sono più dispensato dal servizio militare. Arruolato per la Libia, dove c’è la guerra. Il mio chiodo fisso è affrontare l’esame di Stato. Porto con me i libri, pensando di superare la prova a Tripoli. Lotta contro il tempo, bombe, imprevisti. Infine, nel 1941, ottengo il desiderato diploma a Bengasi dove veniamo trasportat­i da Tripoli, e studio sotto le bombe. Ma quando gli inglesi circondano la città, io, che ho il fegato ammalato, vengo imbarcato su una nave-ospedale per l’Italia. Decido di riprendere gli studi e mi iscrivo alla facoltà di Lettere, a Padova. Con una tesi sul poeta sloveno Kocbek, riuscirò a laurearmi nel 1947, alla fine della drammatica esperienza vissuta nei campi di concentram­ento.

Andiamo con ordine. Al rientro dalla Libia, mi impiegano come interprete di serbo-croato (studiato all’Università con Arturo Cronia, docente di slavistica) al seguito degli ufficiali jugoslavi, prigionier­i di guerra, tre dei quali sloveni. L’incarico verrà poi revocato. Rivedo Trieste dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il peggio deve venire. Aderisco al movimento di liberazion­e sloveno, dalla parte dei cristiano-sociali. Invece, mi catalogano come comunista. Non sono comunista, non lo sono mai stato. Un colpo di sfortuna, e mi trovo deportato per colpa di alcuni sloveni che collaboran­o con i tedeschi. Comincia il mio peregrinar­e tra i campi di concentram­ento: Dachau, Natzweiler-Struthof, Dora, Bergen-Bel- sen. Partiamo in 600 il 1° giugno 1944. Quei campi di lavoro, come ho raccontato in Necropoli, erano destinati ai politici, non agli ebrei. Da Dachau mi portano in Alsazia, sui Vosgi, a 50 chilometri da Strasburgo, dove oggi c’è il Centro europeo del deportato resistente. Qui, mi tornano utili gli esami di lingua e letteratur­a francese, sostenuti a Padova con Diego Valeri. Ed è provvidenz­iale l’incontro con Jean, un ufficiale francese prigionier­o (medico), con il quale riesco a comunicare. Lui vede la «I» in rosso sulla mia giacca e pensa che sia italiano. «Lo sono di cittadinan­za — gli spiego — ma dentro le mura di casa mia, e dove posso, sono sloveno». Jean mi chiede se capisco anche il polacco, il russo, il ceco. «Meglio di te», rispondo. Essere sloveno è stata la mia salvezza. Sono denutrito e malconcio. Il francese mi toglie la fascia alla mano sinistra, gonfia di pus, e la incide (il dito mio mignolo è ancora oggi piegato ad angolo retto); poi, va al comando e mi propone come interprete. Il pellegrina­ggio continua; ancora Dachau, Dora (dove mi fanno diventare infermiere) e Bergen-Belsen. Infine, gli inglesi mi liberano, malato di tisi. Curato in un sanatorio a Parigi, guarisco.

Al mio ritorno in Italia finalmente mi laureo. Avrei voluto insegnare sloveno, me l’hanno impedito. Per vent’anni sono stato professore di italiano; tuttavia, da scrittore, ho sempre usato la mia lingua madre. Scrivere in sloveno è una scelta di campo. Sono sloveno e anche cittadino europeo. Quando la Slovenia è entrata nell’Unione Europea, il governo francese mi ha invitato a Parigi. «Non posso rappresent­are la Slovenia», dissi. «Vengo come cittadino europeo». Nel 2016 ho avuto l’onore di tenere un discorso al Parlamento europeo. Ricordo qui le parole conclusive: «Dialogando, occorre trovare un accordo in Europa per cambiare il modo di vivere dell’uomo su questa Terra. Occorre un’organizzaz­ione generale per creare nella vita della Terra una vita dell’uomo che sia giusta. Una speranza per l’altro mondo, se ve n’è uno».

Nel 2016 ho avuto l’onore di tenere un discorso al Parlamento europeo. Ricordo qui le parole conclusive: « Dialogando, occorre trovare un accordo in Europa per cambiare il modo di vivere dell’uomo su questa Terra»

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 ?? ILLUSTRAZI­ONE DI AMALIA CARATOZZOL­O ??
ILLUSTRAZI­ONE DI AMALIA CARATOZZOL­O

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