Corriere della Sera - La Lettura
Il Machiavelli di Atene
Il contrasto potenziale tra democrazia e giustizia, forza e valore nell’analisi dello Pseudo-Senofonte: un testo lucido e realista scritto oltre duemila anni fa in Grecia può ancora insegnarci parecchio sulla crisi della politica
Come chiunque sa, fra i molti titoli della gloria suprema che può vantare la Grecia classica, oltre alla filosofia e alle arti, figura la creazione, nell’Atene del VI secolo avanti Cristo, di una forma di governo che costituisce il primo esempio di democrazia nella storia. La democrazia ateniese non era però rappresentativa, come le democrazie moderne, bensì diretta, come oggi lo è ancora, e solo entro certi limiti, in alcuni cantoni svizzeri. Etimologicamente «democrazia» significa «potere del popolo», ma l’attiva partecipazione politica era limitata a un numero ristretto di persone, perché cittadini in senso proprio erano soltanto i maschi liberi e maggiorenni: le donne, gli stranieri residenti (meteci) e, naturalmente, gli schiavi erano esclusi.
Promossa tra l’inizio del VI e la prima metà del V dall’opera di Solone, di Clistene e di Efialte, la democrazia ateniese durò fino alla conquista macedone della Grecia nel 322 a.C., nonostante sia stata interrotta da due brevi esperienze di governo oligarchico, nel 411 dopo la sconfitta ateniese in Sicilia e nel 404 alla fine della guerra del Peloponneso, che vide vincitori gli Spartani, campioni dell’oligarchia.
Ma i Greci fin dall’inizio non si limitarono ad attuare l’esperimento democratico: in accordo con la loro vocazione speculativa, discussero incessantemente nelle più varie forme letterarie la questione teorica della politica e dei sistemi di governo, da Platone ad Aristotele, da Solone a Tucidide, da Erodoto ad Aristofane.
È nota, attraverso la testimonianza dello storico Tucidide, la definizione che, nel celebre epitafio o discorso funebre per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, diede Pericle (il più influente politico dell’epoca) della singolarità della democrazia ateniese come sistema che «si fonda non sui pochi, ma sui molti», promuovendo ai pubblici uffici chi si distingua «non per il rango, ma per i meriti» ( Storie, II, 37, 1).
Il concetto è ripreso nel Menesseno platonico (238 D), dove Socrate recita a memoria un epitafio che avrebbe imparato da Aspasia, l’amante di Pericle: «Il potere della città — avrebbe detto Aspasia — risiede per lo più nel popolo, che affida cariche e potere a chi di volta in volta gli sembra migliore, senza che qualcuno sia escluso per debolezza, indigenza o oscurità della nascita, né per i requisiti opposti sia ritenuto degno di stima, come accade nelle altre città. Un solo criterio: chi acquista fama di uomo saggio o valoroso detiene il potere e il governo». La costituzione che gli Ateniesi hanno per lo più sempre avuto e hanno tuttora, spiega Aspasia, «alcuni la chiamano democrazia, altri in altro modo, ma in verità è un’aristocrazia con l’approvazione del popolo».
Infine Aristotele, nella Politica, ripone l’essenza primaria della democrazia nell’uguaglianza, ossia nel fatto che «né i poveri né i ricchi prevalgano, né il potere sia di questi o di quelli, ma gli uni e gli altri siano uguali» (Politica, 1291 b 31-34).
Un breve testo polemico, trasmesso fra gli scritti dello storico Senofonte, la cui paternità è peraltro tendenzialmente negata tanto che esso è noto con il titolo Costituzione degli Ateniesi dello PseudoSenofonte, ha suscitato tra i filologi, gli storici e i politologi un’interminabile discussione, generata innanzitutto dal fatto che pressoché nulla di assolutamente certo ne sappiamo: non l’autore, non la data, non il luogo, non l’ambientazione, non la forma, che è un discorso continuo, ma qualcuno ritiene fosse in origine un dialogo.
Da dove deriva tanto motivo di interesse? Dalla singolarità del contenuto e del senso del testo, adesso ripubblicato negli «Scrittori greci e latini» della Fondazione Valla (Mondadori editore) con l’introduzione, la traduzione e il commento di Giuseppe Serra e un saggio di Luciano Canfora: «Esso appartiene — scrisse Wilhelm Roscher, l’iniziatore della critica moderna sullo Pseudo-Senofonte (1841) — alle più affascinanti e intelligenti reliquie di tutta la letteratura greca» ed è opera di una figura «perfettamente in grado di calarsi nell’animo dei suoi avversari, di trarne la spiegazione delle loro azioni, di lodarle o biasimarle dal loro stesso punto di vista. Tuttavia la sua ca- pacità politica e pratica di prender partito non è minimamente compromessa dalla sua imparzialità di storico».
Il libello, oggi prevalentemente datato, come già aveva proposto Roscher, intorno agli anni Venti del V secolo a.C., si presenta infatti come una giustificazione della democrazia formulata a dispetto della sua condanna ideale o, secondo alcuni, come un attacco alla democrazia, e in particolare alla democrazia ateniese, travestito da apologia.
L’ignoto autore dichiara fin dall’inizio di non approvare la costituzione democratica degli Ateniesi, perché essa privilegia il popolo ignorante e povero rispetto alla classe più saggia dei nobili e dei ricchi, alla quale dovrebbe spettare il comando; ma, nello stesso tempo, riconosce che giustamente il volgo prevalga sull’aristocrazia, dato che solo dal popolo dipende la libertà e la potenza della città, più in particolare il suo impero marittimo: sono i poveri che fanno andare le navi e danno prosperità allo Stato assai più dei ricchi e dei nobili, e allo stesso modo sono i meteci che consentono lo sviluppo delle arti.
Legittimamente il popolo persegue il proprio interesse, anche a danno di un equo governo, preferendo l’utile al giusto. «Il popolo vuole essere libero e comandare», dichiara lo Pseudo-Senofonte, ma egli deve riconoscere che, se si affermasse l’eunomia, ovvero il dominio delle buone leggi, il popolo «cadrebbe al più presto in schiavitù» e forse Atene potrebbe perdere l’impero, come di fatto avvenne nel 404 a.C., quando Sparta vinse la guerra e ad Atene fu imposta l’oligarchia collaborazionista guidata da Crizia. Si può anche migliorare la costituzione, ma non è facile conservare nel contempo la democrazia se non «togliendo o aggiungendo qualcosa un po’ per volta», osserva l’ignoto autore.
Sembra dunque delinearsi un dilemma e un conflitto fra giustizia e democrazia, fra valore e potenza, fra idealità e fatti, tanto da rendere difficile capire da che parte stia realmente l’autore ma, soprattutto, da suggerire analogie con situazioni politiche concrete che sono anche quelle dei nostri giorni.
Nella limpida introduzione, nel puntuale e monumentale commento al testo Giuseppe Serra — umbratile, coltissimo e inflessibile grecista e arabista — mette egregiamente in luce la struttura antilogica, presente anche nelle Storie di Tucidide, del discorso dello Pseudo-Senofonte, che egli avvicina anche ai diffamati, ma per noi quanto mai moderni, «discorsi doppi» dei sofisti. Serra nota in particolare la fragilità degli indizi che sostengono la datazione tradizionale dell’opuscolo al V secolo e non esclude che esso, proprio per il suo carattere retorico, possa invece risalire al IV, quando il vecchio impero ateniese, sconfitto in guerra, non esisteva più.
Certo il problema sarebbe risolto se si potesse assegnare la paternità dell’opuscolo a un personaggio noto. È la strada seguita nel suo saggio da Luciano Canfora, che partendo da un’ipotesi di August Böckh (1850) difende con argomentazioni da par suo l’attribuzione del libello all’aristocratico Crizia: zio di Platone e discepolo di Socrate, capo dei Trenta tiranni di Atene, riparato in Tessaglia dopo il fallimento della rivoluzione oligarchica del 411 a.C., Crizia avrebbe sferrato dall’esilio un violento pamphlet contro l’Atene democratica. Nello stesso tempo Canfora riconosce che la Costituzione degli
Ateniesi, pur nata da una situazione concreta, «vuole assumere un valore generale» e potrebbe essere stata scritta quando l’impero ateniese era già sulla via del tramonto.
L’ingenuo lettore, al di là del disaccordo degli studiosi, immagina nello Pseudo-Senofonte solo un disincantato realista, un lontano precursore di Niccolò Machiavelli, che potè essere repubblicano e mediceo senza privare il mondo del dono di un’intemerata lucidità.
Base dell’impero I poveri non sono istruiti come le classi superiori ma, in quanto equipaggi delle navi, assicurano la potenza della città