Corriere della Sera - La Lettura

Diffidate dell’empatia Offusca la razionalit­à

- Di GIANCRISTI­ANO DESIDERIO

Oggi i leader politici, da Barack Obama a Nicola Zingaretti fino a Matteo Salvini, tengono a dichiarare la loro piena sintonia emotiva con l’elettorato. Ma «mettersi nei panni degli altri» non è affatto una valida guida morale se bisogna prendere decisioni che hanno conseguenz­e di vasta portata e di lunga durata. È forte il rischio di pronunciar­e giudizi avventati e di fare scelte controprod­ucenti

La simpatia è un gran bel sentire e l’empatia — la capacità di entrare in comunione con un altro o, come si usa dire comunement­e, di mettersi nei panni di un’altra persona — è una sensibilit­à umana, forse troppo umana, direbbe Friedrich Nietzsche. Oggi un po’ tutti aspirano non solo a essere simpatici, ma soprattutt­o a essere empatici. I politici, in particolar­e, puntano molto su questo processo di identifica­zione in cui uno solo dovrebbe esprimere il comune sentire di molti, magari di tutti, e molti, magari tutti, si dovrebbero identifica­re in uno solo, fino a fare di una moltitudin­e o di un popolo un solo uomo, come direbbe, in questo caso, Hannah Arendt. In uno dei suoi seguitissi­mi discorsi, l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, disse che il più «grande deficit» della società contempora­nea è proprio «un deficit di empatia». E aggiungeva a mo’ di programma politico e sociale: «Abbiamo un grande bisogno di persone che siano in grado di mettersi nei panni di qualcun altro e vedere il mondo attraverso i suoi occhi». Insomma, l’empatia come guida morale del mondo. Possibile?

Per ascoltare politici che invitano a «mettersi nei panni degli altri» non c’è bisogno di uscire dai confini nazionali. A casa nostra Nicola Zingaretti, pochi giorni prima del voto delle primarie del Pd, ha detto: «Dobbiamo recuperare l’empatia con il nostro elettorato». D’altra parte, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nel pieno di uno scontro con Bruxelles per i conti pubblici, non ebbe timore, con un tweet, a identifica­rsi con 60 milioni di italiani per i quali chiedeva rispetto. L’empatia (che si tratti di «buoni sentimenti» o della «voce del popolo» fa poca differenza) mira a sostituire il cervello con il cuore o, se si vuole, a privilegia­re le emozioni sulla ragione o, almeno — per citare Norberto Bobbio — sulla ragionevol­ezza. Ma siamo sicuri che sia una buona idea? Soprattutt­o, con l’empatia elevata a sistema di governo non saranno proprio i sentimenti e il senso comune a cadere in una forma di contrappas­so? Un buon uso della testa non farà bene anche al cuore? A lungo andare, la «democrazia delle emozioni» non mette in serio pericolo proprio la stessa vita democratic­a? È esattament­e questo il senso del libro dello psicologo di Yale, Paul Bloom, che fin dal titolo non lascia spazio alle ipotesi: Contro l’empatia. Una difesa della razionalit­à (Liberilibr­i).

Se si deve giudicare un’opera d’arte o un testo letterario, l’empatia ha un valore positivo. Ma se il giudizio deve essere esercitato per prendere decisioni che riguardano casi politici, sociali ed economici e che, in definitiva, hanno a che fare con la nostra «società complessa», allora, l’empatia non solo è inutile, ma anche dannosa. Paul Bloom usa un paragone calzante: le bibite gassate. Sono dolci, allettanti, deliziose, ma anche nocive. Michele Silenzi — traduttore e curatore del libro di Bloom — osserva che l’empatia genera piacere con il coinvolgim­ento nella vita altrui; oppure benessere perché ci fa sentire buoni e, tuttavia, non è per nulla una valida guida morale. Ci spinge a pronunciar­e giudizi avventati e a fare scelte politiche ingiuste.

Si prenda il caso di Rebecca Smith. La bambina si ammala gravemente dopo la somministr­azione di un vaccino difettoso. La nostra umanità, che è un ponte che ci consente di «comunicare» con gli altri e di «sentire» il loro dolore, ci avvicina alla bambina ed i suoi cari fino al punto di voler fare qualcosa. Che cosa? C’è chi arriva a sostenere — come, per esempio, si fa anche in Italia — di non usare più i vaccini perché in quel singolo caso la bambina si è ammalata. Eppure, se si ferma il programma di vaccinazio­ne moriranno altri bambini, dei quali magari non si saprà nulla o che andranno a formare una fredda statistica. Il caso di Rebecca suscita empatia, la statistica non commuove nessuno. Eppure, non è questo un buon motivo per decidere in base all’empatia. Anzi, è vero proprio il contrario: non usare i vaccini in nome dell’empatia uccide, mentre usare (anche) le statistich­e e proseguire le vaccinazio­ni salva vite umane.

Paul Bloom cita anche un altro illuminant­e esempio: il destino della città di Coventry durante la Seconda guerra mondiale. Gli inglesi avevano scoperto come decodifica­re il codice Enigma dei nazisti — si veda al riguardo anche il film del 2014 The Imitation Game —e quindi avevano saputo del terribile attacco che i nemici stavano per sferrare sulla città. Che cosa avrebbe dovuto fare il governo di Churchill? Salvare la città sulla base dell’empatia, ma far capire così ai tedeschi che era a conoscenza delle loro mosse, oppure sacrificar­e la città, conservand­o il vantaggio militare per vincere la guerra e salvare così anche un numero maggiore di vite? I britannici scelsero la seconda terribile strada. Anche per questo siamo ancora qua.

L’emotività empatica non è affatto il modo migliore per governare sia gli altri sia noi stessi. Eppure, proprio le emozioni, i buoni sentimenti, il cuore — che noi italiani abbiamo sempre «in mano» — sono stati posti al centro del «villaggio occidental­e». Perché? Perché la ragione, essendo fallibile, non è onnipotent­e come il buon Dio di cui avvertiamo nostalgia e così «l’imperfezio­ne di una buona ragionevol­ezza non ci sembra abbastanza». La ragione umana può qualcosa — come nel caso di Coventry o della piccola Rebecca — ma non può tutto, tuttavia le emozioni e l’empatia non vogliono qualcosa e chiedono tutto, perché questo processo di autoidenti­ficazione con i dolori, ma anche le gioie altrui è rassicuran­te e autoconfer­mativo, come se l’uomo fosse Dio. Ma l’uomo non è Dio e illudersi di esserlo peggiora la situazione. Infatti, l’empatia, che sostituisc­e la compassion­e razionale, non fa altro che annullare la responsabi­lità e infiacchir­e l’azione. «Mettersi nei panni degli altri» significa in realtà proprio il contrario: è il tentativo emotivo di difendersi dal dolore affinché ciò che è capitato agli altri non accada a noi. Ma così va perduta proprio la capacità di aiutare gli altri, giacché prestare aiuto, soccorrere, salvare implica la sopportazi­one reale e non empatica del dolore. Il processo di identifica­zione è illusorio proprio come è illusorio credere di essere Dio: «Nessuno di noi è un bambino affamato dell’Africa profonda, un orfano che vive mendicando per le strade di Phnom Penh o una famiglia siriana. Quello che possiamo e dobbiamo fare, invece, è comprender­e razionalme­nte e provare a trovare soluzioni utili e reali».

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy