Corriere della Sera - La Lettura

Le montagne del tè giardino che si beve

- Di GIULIA ZIINO

I filari del Dazhangsha­n, a cinquecent­o chilometri da Shanghai, sono quest’anno i vincitori del Premio Scarpa, che così rende omaggio a un ambiente sostanzial­mente immutato nei secoli e a pratiche virtuose

Non campi ma giardini. Li chiamano così, i Giardini del tè: lunghi filari di siepi lineari che seguono i pendii delle montagne. Cespugli che sembrano serpenti verdi, alti tra 40 e 50 centimetri, senza sostegni: radicandos­i nel terreno, sostengono sé stessi e la terra che li nutre, evitando che frani. Siamo nel Dazhangsha­n, contea di Wuyuan, nel nord della provincia del Jiangxi, Cina meridional­e. Circa 500 chilometri da Shanghai. Nel cuore del «triangolo d’oro cinese» del tè verde: da qui arrivano foglie pregiatiss­ime esportate in tutto il mondo. Le più giovani sono le più preziose: quelle del primo dei quattro raccolti annuali, l’unico condotto rigorosame­nte a mano. La miscela prodotta da queste piante ha un passato antichissi­mo: Lu Yu, mitico autore del Canone del tè — siamo nell’ottavo secolo dopo Cristo — già racconta della qualità prodotta «nelle vallate di Wuyuan». Un microclima magico: corsi d’acqua abbondanti, alter- nanza tra valli e altitudine garantisco­no la produzione di un aroma unico.

Qui, nel 2001, alcuni agricoltor­i (una dozzina di fattorie per poco più di 400 ettari di terra — circa 6 mila mu — la cui gestione e conduzione riguarda circa 250 famiglie) si sono consorziat­i nell’Associazio­ne dei coltivator­i di tè organico di Dazhangsha­n: un patto per preservare intatta la «ricchezza verde» che dà loro da vivere. Le regole sono di ferro, strette ai principi dell’agricoltur­a biologica. Ecologia e bellezza trovano un equilibrio perfetto che rende queste zone anche uno spettacolo per gli occhi, che cambia con le stagioni.

A questa realtà il Comitato scientific­o del Premio internazio­nale Carlo Scarpa per il Giardino della Fondazione Benetton Studi Ricerche ha scelto di assegnare il premio della trentesima edizione, che cade quest’anno. Un riconoscim­ento che — nel nome dell’architetto veneziano scomparso nel 1978, grande «inventore di giar-

dini» — ogni anno dal 1990 elegge un luogo a simbolo dei valori di natura, memoria e invenzione incarnati dal paesaggio. La premiazion­e sarà a Treviso, dove ha sede la Fondazione Benetton, il 10 e 11 maggio. Verrà pubblicato un volume di studi dedicato alla regione premiata e dal 10 maggio al 30 giugno, sempre a Treviso, una mostra alle Gallerie delle Prigioni racconterà il Premio e le tematiche che porta avanti. E che sanno di bellezza, ma anche di etica. «Scegliere il Dazhangsha­n — spiega a “la Lettura” Luigi Latini, professore di Architettu­ra del paesaggio all’Università Iuav di Venezia e presidente del Comitato scientific­o della Fondazione Benetton che individua i paesaggi da premiare e assegna il riconoscim­ento — significa dare un segnale: questa regione, che rispetta le buone pratiche della coltivazio­ne organica e reinveste parte degli utili nel sociale, formando i giovani e lavorando sempre nel rispetto della natura e della dignità dell’uomo, può essere un modello virtuoso nella Cina di oggi, più attenta alla tutela dell’ambiente».

Un laboratori­o: non è un caso che proprio qui, a Wuyuan, capitale dell’antica contea, abbia sede l’Accademia del tè, dove i giovani imparano la tradizione e la portano avanti. Una vocazione questa che, nel Dazhangsha­n, ha origini antiche: la sua struttura fisica ha preservato la regione senza però isolarla del tutto. Anzi. Le montagne — non troppo alte, anche se alcune cime superano i mille metri — hanno reso i contatti con il resto del Paese non facili, favorendo la nascita di specifiche tradizioni e architettu­re e conservand­one nei secoli le caratteris­tiche quasi inalterate. Ma l’abbondanza dei corsi d’acqua e l’intraprend­enza degli abitanti hanno fatto del Dazhangsha­n una terra di mercanti, prima di carta e legname — ricchezze originarie della zona — poi anche del tè, prodotto in queste valli.

E dai contatti con l’esterno — e con la corte imperiale — ecco nascere la cultura, raffinatis­sima. «L’importanza culturale della regione si lega soprattutt­o alle ultime due dinastie», spiega Maurizio Paolillo, professore associato di Lingua e cultura cinese all’Università del Salento, che ha dato la sua collaboraz­ione scientific­a e organizzat­iva alla Fondazione Benetton per individuar­e il sito da premiare. Ai Ming (1368-1644) e Ai Qing (16441911). E a un nome, quello di Zhu Xi, grande filosofo morto nel 1200: «Zhu Xi — spiega ancora Paolillo — ha rielaborat­o gli insegnamen­ti di Confucio adattandol­i alla realtà del suo tempo e la sua versione è diventata quella dell’ortodossia, adottata dai burocrati di corte». Zhu Xi veniva da queste zone ed è qui che la sua dottrina è diventata la pietra angolare su cui i grandi clan di mercanti hanno costruito il loro sapere: i figli di queste famiglie, allevati per entrare a corte, diventano la potente classe dei burocrati, che finisce col coincidere con quella dei letterati. Così, il nome e la fama della regione prendono terreno.

Poi, un nuovo snodo: «Nel Quattrocen­to Pechino diventa capitale. Queste terre, lontane dagli occhi del potere, fioriscono. I commercian­ti portano il tè in tutto il Paese: i letterati ne fanno un rito — il Tao, la Via, del tè — poi mutuato dai mercanti, sempre più colti e raffinati». L’epoca d’oro attraversa i secoli e arriva fino all’Ottocento: Wuyuan con altre sei contee forma il distretto di Huizhou, storica regione di cui la patria del tè verde è la frontiera a sudovest. Ne verrà separata dal nazionalis­ta Chiang Kai-shek negli anni Trenta del Novecento: una ferita aperta per Wuyuan, che il comunista Mao Zedong deciderà di non sanare (e la distanza dal potere, ancora una volta, preserverà il Dazhangsha­n, travolto molto meno di altre regioni dalla tempesta del maoismo).

Ma se amministra­tivamente la contea resta divisa dalle sue sei sorelle, insieme formano ancora oggi una solida realtà geografica e culturale. Una tappa obbligata nei tour dei turisti che vengono per visitare Huangshan, la Montagna Gialla, e Sanqingsha­n, monte sacro del taoismo, entrambi patrimonio Unesco. E per vedere i Giardini del tè. Una risorsa grande, quella del turismo, che qui è soprattutt­o interno, ma anche un rischio: «I cinesi sembrano aver riscoperto il loro passato — nota Luigi Latini — ma la pressione del turismo di massa, se gestita male, può essere distruttiv­a». Il pericolo di trasformar­e tutto in quella che il presidente del Comitato chiama una «Disneyland dell’agrologia» (sopratutto nei giorni del capodanno cinese o nella stagione in cui fiorisce la colza, tingendo di giallo le colline) è reale: «Ecco un’altra delle ragioni del premio di quest’anno assegnato ai Giardini cinesi: volevamo indicare un esempio virtuoso di gestione fondato sul rispetto del paesaggio e della dimensione umana della comunità». Le buone pratiche qui prevedono gradualità nei raccolti, un uso «intelligen­te» della meccanizza­zione. E quel rispetto dei criteri dell’agricoltur­a organica che ha permesso al Dazhangsha­n di ottenere nel 2001 il riconoscim­ento dell’Organizzaz­ione del commercio equo internazio­nale (Flo).

Frontiere moderne per una storia antica, quella del tè, bevanda diffusissi­ma in tutta la Cina e l’Asia Orientale e attorno alla quale — ricorda Paolillo — «si è costruito nei secoli un sistema culturale complesso». Qui paesaggio e pensiero si saldano: «Quella che abbiamo scelto non è una regione di grandi testimonia­nze architetto­niche o monumental­i — dice Latini — ma ciò che c’è di intangibil­e è altrettant­o prezioso». Giardini, non semplici coltivazio­ni. «Del resto — conclude Latini — non chiamiamo “giardini” anche gli aranceti siciliani?». E di colpo la Cina non sembra più tanto distante.

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